Tredici anni. Una giornata come tante, passate tra la famiglia e la palestra. Con le amiche di sempre, quelle con cui Yara avrebbe condiviso le ultime ore della sua vita prima della tragedia. Una storia che vorremmo non fosse mai accaduta e che invece, dal 2010, ci tormenta. Processi su processi, prove, comizi, testimonianze, e un dolore che non smette mai di pulsare dentro e fuori dalla vita dei suoi genitori che dal 2010 hanno visto diventare realtà l’incubo di ogni genitore. Immediatamente discussa, la nuova docuserie Netflix Il Caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio ricostruisce i fatti raccontando quanto accaduto partendo dal giorno della scomparsa fino ad arrivare ai giorni nostri.
Prima di cominciare quella che sarà la nostra recensione, occorre fare una premessa imprescindibile: non parleremo qui di innocenti o colpevoli. Questo compito spetta a chi di dovere. Prenderemo Il Caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio per quella che è: la narrazione di una storia devastante. Non diventerà un mezzo per chiedersi se il colpevole sia davvero tale o cosa e chi si possa nascondere dietro tutto questo, e consigliamo tale approccio a chiunque decida di affrontare il ricordo di questa terribile vicenda. E’ un modo per non dimenticare. Un modo per ricordare e sperare che tali atrocità possano non ricommettersi.
Arrivata su Netflix il 16 luglio, Il Caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio ci ricorda tutto ciò che accadde al di fuori delle aule da tribunale, consegnandoci una storia terribile
Raccontare quanto avvenga di fronte a una simile tragedia è un dovere di cronaca. Ma mentiremmo se non dicessimo quanto ci abbia turbato ricordare il modo con cui la cronaca spesso andò oltre ogni limite al momento dei fatti, invadendo uno spazio privato e personale che ci lascia con un grande magone allo stomaco.
Come visto dalle immagini reali offerte dalla docuserie, durante le indagini i genitori di Yara – le uniche vittime di questa storia, assieme alla loro bambina – sono stati assaliti da folle che, armate di un microfono, rendevano ancora più impossibile un equilibrio già smarrito. Sono stati loro, in alcuni rinomati programmi televisivi, a rivelare che si stesse parlando di omicidio, e non più di scomparsa. Lo fecero prima ancora che i genitori ne venissero a conoscenza, rendendo ancor più disumana questa storia così atroce. Immaginate di essere al loro posto. Di avere una speranza. E poi immaginate di sentire dalla televisione, prima ancora di ricevere notizie dalle autorità competenti, che la propria figlia sia stata uccisa.
Il confine tra informazione e prevaricazione è stato qui molto labile. E’ andato oltre ogni ragionevole limite, servendosi anche di termini non adatti al dramma che si stava consumando. Come qualcuno che, dopo l’arresto del colpevole che si professava innocente, raccontava i fatti affermando – citiamo testualmente – “la partita adesso si giocherà al processo.” La partita. La morte di una bambina di 13 anni non è una partita: è un dramma. Uno degli eventi peggiori che una società possa conoscere. Un avvenimento disumano che fa riscoprire l’essere umano come il peggiore dei mostri. Quindi no. Nessuna partita. Le parole sono importanti, specie quando si affrontano argomenti così delicati. Perché Yara Gambirasio non è la vittima di una Serie Tv. Non è una partita a Cluedo. Era una bambina. Una persona.
Come visto nella docuserie, il caso esplose diventando una bomba a orologeria. Dei sensitivi chiamavano i genitori di Yara, sostenendo di sentire la presenza della figlia. Tutti dicevano la loro, non preoccupandosi troppo di abbassare il volume della voce. Ma nessuno, o ben pochi, dicevano quel che più era giusto dire: ma la volete lasciare riposare in pace questa bambina?
Finti testimoni alzavano la cornetta per rivelare di aver visto Yara prima del terribile evento, salvo poi fare dei passi indietro con delle versioni che non avevano alcuna attinenza con la realtà. Tra le tante brutalità raccontate in questa docuserie, non si può non citare questa disumanità. Il modo con cui, tra i tanti gesti di affetto che sicuramente riconosciamo, si siano nascoste delle serpi che, strisciando, provavano ad avere un ruolo. A rincorrere genitori stravolti per una prima pagina. A intervistare bambine di 13 anni con un microfono e una telecamera puntati addosso, senza considerare minimante con chi ci si stesse rapportando. Un’intervista a delle ragazzine di certo non avrebbe cambiato le sorti di un processo. Del corpo di una bambina lasciato e dimenticato in una strada dimenticata.
Come spesso succede in questi casi, l’attenzione per un momento aveva vacillato. Attraverso l’indagine nei confronti un individuo, le folle cominciavano a rivendicare i propri principi e la propria deplorevole xenofobia – come visto nel documentario – dimenticando il punto centrale di questa situazione: Yara. Solo Yara. Un corpo senza vita di una bambina che aveva ancora tutto davanti. Un corpo a cui bisogna portare rispetto ogni giorno, scegliendo di parlarne solo con le parole giuste. In mancanza di queste, meglio praticare l’arte del silenzio.
Del documentario Netflix si evince l’ampio spazio restituito sia all’accusa che alla difesa, elemento che ha reso Il Caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio un prodotto destinato soltanto alla narrazione di una terribile storia, senza alcuna presa di posizione se non una disperazione condivisa per la morte prematura di un essere umano. Probabilmente farà discutere come ha già fatto, e lo comprendiamo, ma l’importante è non utilizzarlo per litigare sotto a un post social asserendo risposte che nessuno di noi può avere. Svilirebbe la sua natura. Prendetelo come il ricordo di Yara, una bambina che adesso sarebbe una donna. Che avrebbe forse realizzato il suo sogno da ginnasta o che forse ne avrebbe scoperto uno nuovo, facendo su e giù dalle montagne russe di un’esistenza di cui è stata privata in modo disumano.