Quando parlo di Derry Girls tendo sempre a definirlo come un piccolo gioiellino, un po’ con la stessa tenerezza delle nonne che ti danno nomignoli imbarazzanti mentre ti strizzano una guancia. Il fatto è che è davvero un gioiello, è davvero una serie preziosissima sotto tanti punti di vista, addirittura inestimabile oserei dire. Superficialmente la si potrebbe inserire nella categoria comedy, ridere delle assurde avventure dei suoi protagonisti e terminare lì la sua lettura. Ma questo prodotto è così stratificato, così complesso eppure così semplice da essere davvero una fonte inesauribile di punti di lettura.
Dopo il finale della seconda stagione si poteva pensare che la serie sarebbe terminata lì ed effettivamente avrebbe avuto senso concluderla in quel modo. Sarebbe stato un finale di serie in piena regola, con una serie infinita di possibilità lasciate aperte e la cui destinazione era più un rimettersi al giudizio dello spettatore che altro. E sarebbe potuta andare bene così. Infatti, quando fu annunciata la terza stagione, se da una parte ero entusiasta di ritornare a Londonderry per puro egoismo, dall’altra – devo confessare – di aver avuto timore di ciò che avrebbero creato. Non sempre insistere su qualcosa, dopo un finale così bello come quello che Lisa McGee ci aveva regalato con Derry Girls 2, è una buona idea, ma questa volta lo è stata.
Siamo tornati a Derry e alla sua realtà provinciale, e nulla è cambiato. Erin, Orla, Michelle, Claire e James sono sempre gli stessi, sister Michael è la stessa, le dinamiche sono le stesse e veniamo accolti da quell’aria famigliare di follia e divertimento che per un attimo ci fa dimenticare – come è solito succedere in Derry Girls – che ci troviamo in Irlanda nel bel mezzo anzi, quasi al culmine, del conflitto nordirlandese. Quasi passa in secondo piano il fatto che c’è gente che si fa la guerra nelle strade perché la bravura di Lisa McGee sta proprio in questo, in una scrittura che tende a sottoporre vari livelli di complessità allo spettatore quasi in maniera totalmente inconscia, cosa che sottolinea ulteriormente l’estrema bravura di questa sceneggiatrice.
E così mentre in casa di Erin e Orla c’è in corso una scenetta dai tratti estremamente comici, nel televisore o sul giornale o alla radio risuonano gli orribili sviluppi del conflitto. Ed è proprio in quel momento che ti assale la consapevolezza, è proprio mentre stai ridendo per le provocazioni di Joe a Gerry, è proprio mentre Sarah ne sta dicendo una delle sue che ti cade l’occhio su quel dettaglio e ti ritrovi a pensare che quasi dimenticavi ci fosse una guerra in atto. I drammi dei protagonisti si ridimensionano e istintivamente ti ritrovi a riflettere sulla guerra e di quanta distruzione possa portare. Pur diventando, agli occhi di chi la vive, la normalità.
Posti di blocco in città e ai confini, il terrore di dimostrarsi appartenenti a un determinato credo, il pregiudizio nei confronti dell’altro, del nemico e poi l’indifferenza: l’indifferenza di persone comunissime che hanno perso il senso di quella guerra, ma più in generale della realtà perché c’è qualcuno che in questa ci è nato e che effettivamente non conosce una normalità diversa.
C’è una scena in particolare che dimostra proprio questo con estrema chiarezza e lo fa sempre mantenendo quell’ironia e quell’aria da comedy che tanto amiamo. È quella in cui Orla va a ritirare la tessera elettorale prima di andare a scuola. La vediamo saltellare e ballare tranquilla nella sua bolla, passando davanti a militari, posti di blocco, gente armata, scontri. Non poteva esserci una dimostrazione più eclatante di quanto la guerra fosse la loro normalità. E sì, da una parte il balletto spensierato di Orla diverte, ma lo sfondo, il contorno, di divertente ha davvero pochissimo.
Cioè che amo follemente di Lisa McGee, della sua scrittura, del suo genio e della sua meravigliosa Derry Girls – serie di Channel 4, ma disponibile su Netflix – è proprio questa geniale capacità di rendere con infinita intelligenza la cronaca di un periodo storico bellicoso, condito però di comicità e significati stratificati, un’infinità di chiavi di lettura e di livelli di comprensione che sono – per me aspirante regista e sceneggiatrice – il raggiungimento del nirvana narrativo, la quintessenza del successo professionale. Semmai dovessi riuscire a scrivere qualcosa di tanto complesso, ma allo stesso tempo di tanto semplice e divertente, probabilmente sarei la persona più felice al mondo e sicuramente la meno modesta sulla faccia della terra.
In questa terza e ultima stagione, in modo particolare, la serie di Channel 4 per Netflix ha un mutamento, una crescita inevitabile. Anche le nostre amate protagonisti, così imperfette, così stralunate, così immutabili, mutano, evolvono. A quella superficialità che ci ha accompagnato per quasi tre stagioni, si aggiungono nuove consapevolezze, nuove problematiche che le costringono a crescere, a cambiare. L’adolescenza sta finendo anche per loro e con il loro mutare stanno per lasciarsi alle spalle quella sensazione di invincibilità e inarrestabilità (sì, esiste come parola ho controllato) tipica dell’adolescenza.
E avviene perché la vita succede. Perché da un giorno all’altro sono responsabili del futuro del loro paese. Loro, persone totalmente irresponsabili, devono scegliere al referendum il futuro del loro paese, il futuro del conflitto. Da un giorno all’altro si ritrovano a fare i conti con la morte, con un lutto inaspettato, quello di un genitore e diventano testimoni di quanto – in pochissimo tempo – tutto possa cambiare, di quanto in realtà si può essere fallibili, vincibili. La morte del padre di Clare le riporta nella dimensione reale, le riporta con i piedi per terra. E lo stesso fa la lite tra Erin e Michelle per la questione del fratello della seconda.
Sono tutti elementi che messi insieme, seppur conditi sempre con quella comicità che ho abbondantemente elogiato finora, riportano anche le nostre protagoniste a una dimensione di realtà. Anche loro – le più folli stralunate dell’universo seriale – devono crescere, devono affrontare la vita e con questa si devono scontrare, pur con il rischio di farsi male.
E poi c’è quella conclusione, il momento del voto, il momento di massima responsabilità di ciascun personaggio. Il momento che segna l’inizio della loro nuova vita e la fine del conflitto. Un cerchio che sembrava essersi chiuso alla perfezione, forse con un finale fin troppo tradizionale e regolare per essere il finale di Derry Girls e, infatti, quando sembrava che avessimo visto l’ultima inquadratura della serie di Channel 4, ecco che arriva un’ultima scena. Una scena un po’ inaspettata, ma che trova la chiusura perfetta che combacia con la scena finale della seconda stagione e che segna definitivamente la fine – adesso gloriosa – di questa serie.
Siamo a New York, non siamo più negli anni ’90. È il presente. Una lettera smarrita viene consegnata a una donna. Proviene da Londonderry e quando l’inquadratura si allarga, la vediamo tra le mani di Chelsea Clinton. È la lettera di Erin, Orla, Michelle, James e Clare. E leggere quel contenuto a distanza di un tempo che è finto per noi spettatori, ma che è reale nel racconto, (almeno a me) ha fatto venire un po’ di nostalgia di quel gruppo folle e tremendamente divertente.
Ed è il finale perfetto per Derry Girls, perché è un finale che chiude un cerchio, è un finale che strappa un sorriso e riporta tra le righe e tra le parole la bellezza di quelle tre stagioni, delle loro avventure e delle loro folli idee. È un finale perfetto perché ancora una volta Lisa McGee è riuscita a scavalcare e aggirare le regole canoniche del racconto comico, le ha manipolate per regalarci il finale più giusto e più in linea con la sua creazione che potesse darci.
Fa un po’ male lasciare Derry, ma era inevitabile e non avrebbe potuto esserci altro modo per farlo.