Il Nome della Rosa 1×01 e 1×02 sono andate in onda ieri sera. Qui di seguito la nostra recensione degli episodi.
L’ambizione di Rai Fiction di continuare un percorso internazionale, dopo le esperienze di L’amica geniale e Rocco Schiavone, continua con la produzione di una delle serie tv italiane più attese del 2019. Da un lato la lavorazione di questo nuovo adattamento del capolavoro di Umberto Eco si è svolta principalmente in Italia e con manovalanza italiana (su tutti spicca il regista Giacomo Battiato). Dall’altro invece l’innesto di un cast di alto profilo internazionale. I nomi più forti in questo secondo aspetto sono ovviamente quelli di John Turturro nel ruolo del protagonista Guglielmo da Baskerville, Rupert Everett nei panni di Bernardo Gui e Michael Emerson che interpreta l’Abate Abbone da Fossanova.
Prima di concentrarci sugli elementi fondanti, questo nuovo adattamento seriale del best seller di Umberto Eco, capace di vendere 55 milioni di copie nel mondo, è però necessario dare qualche dettaglio sulla trama. Almeno per chi non avesse letto il libro né visto il film.
La trama dell’opera Il nome della rosa ci porta all’ultima settimana del novembre dell’anno del Signore 1327. Il frate francescano Guglielmo da Baskerville si reca, insieme al suo novizio Adso da Melk, in un’isolata abbazia benedettina nel nord Italia per un’importante incontro con una delegazione papale. L’ordine dei francescani infatti è in odore di eresia da parte del papato in esilio ad Avignone e chiede aiuto all’Imperatore. Al loro arrivo, però, si ritrovano nel mezzo di un vortice malvagio e perverso che attanaglia l’abazia benedettina. A cominciare dalla morte del giovane monaco Adelmo.
Ma questa è solo la prima di una serie di morti misteriose e feroci che si susseguono nei giorni che avvicinano alla disputa.
L’abate Abbone chiede quindi a Guglielmo di indagare, in virtù della sua intelligenza e perspicacia, e del suo passato da inquisitore. L’attento sguardo di Guglielmo e del suo novizio Adso ci conduce tra segreti e misteri celati nell’abbazia fino all’interno della straordinaria e labirintica biblioteca che sembra essere il cuore del malvagie azioni che stanno deturpando la tranquillità monastica.
Il nome della rosa ci presenta fin da subito tutti i personaggi chiave. I loro vizi e le loro virtù. Rispetto al romanzo e al film abbiamo la possibilità di conoscere meglio e più in profondità i protagonisti, e non solo, di questa vicenda. Vediamo infatti il giovane Adso alle prese con un conflitto paterno che lo spinge verso la vita monastica. O le vicende che coinvolgono il cellario Remigio da Varagine e il suo passato tra le fila dell’eretico fra Dulcino. Ovviamente su tutti spicca l’acume e la sagacia di spirito e mente di fra Guglielmo da Baskerville.
Uno dei punti di forza di questa produzione è indubbiamente la qualità attoriale del cast. Sia di quello italiano che, soprattutto, di quello internazionale. Dopo un primo momento di smarrimento di fronte all’immagine di Turturro al posto di Sean Connery, che aveva prestato trent’anni fa il volto allo stesso personaggio, l’attore newyorkese ci conquista e convince. Risulta un poco più moderno rispetto alla precedente interpretazione del film di Annaud sia nei dialoghi che nell’energia della sua recitazione. Ma non in senso negativo. Semplicemente è diverso e richiede qualche minuto per abituarcisi, almeno per chi è cresciuto con l’immagine nella mente dell’attore scozzese.
Ma è il giovane Damian Hardung che interpreta il novizio benedettino Adso da Melk la vera sorpresa. Non fa rimpiangere in alcun modo l’eccellente recitazione che fu di Christian Slater.
I dubbi e le pulsioni che lo animano sono ben mostrate e alternate a seconda del contesto della trama. Eccellente il contributo di Rupert Everett nei panni dell’inquisitore Bernardo Gui, anche se finora visto quasi esclusivamente all’interno della sede papale ad Avignone. Ma in queste immagini, inedite rispetto al libro e al film, riesce a costruire l’alone di fanatica follia e crudeltà che anima il suo spirito. Sarà davvero interessante vederlo giungere all’abazia e confrontarsi con il nostro francescano Guglielmo. All’abazia non si può non soffermarsi, in primis, sul lavoro di Michael Emerson (Benjamin Linus in Lost). La mescidanza tra sincero terrore e corruzione d’animo dell’abate è resa fin dal primo sguardo in modo davvero preciso e mai didascalico.
Anche la fotografia ha un respiro cinematografico. Le riprese in esterna dei panorami girati principalmente in Abruzzo e gli interni di Avignone e dell’abazia sono resi in modo davvero efficace.
Quindi ci è piaciuto tutto? La risposta purtroppo non può che essere no. Per quanto le note positive ci siano, come abbiamo riportato finora, e attendiamo lo sviluppo delle restanti puntate per esprimere un giudizio complessivo, possiamo comunque sottolineare alcune perplessità che si sono evidenziate in modo macroscopico. Queste sono riconducibili a tre elementi ben distinti ma molto chiari.
Il primo elemento è dovuto al netto contrasto tra la qualità delle immagini di cui abbiamo appena scritto e quelle visibilmente girate negli studi di Cinecittà. Principalmente le scene nel cortile dell’abazia, dove è abbastanza evidente che gli elementi architettonici delle strutture siano posticci. Al limite di mostrare la loro inverosimiglianza. Sarebbe anche un peccato veniale per una produzione nostrana se non sapessimo però che l’investimento complessivo è stato di 26 milioni di euro. Forse era possibile fare qualcosa in più.
Il secondo elemento è la profondità dei dialoghi. Ovviamente il confronto con il libro è impietoso, ma questa non può essere una colpa.
Di colpevolezza si tratta invece nel raffronto con il film di Annaud del ’86. Con molte più ore di girato a disposizione sarebbe stato auspicabile che i temi portanti dell lavoro di Eco venissero approfonditi con un po’ più di qualità. Indubbiamente la necessità di essere trasmessi in prima serata sulla principale rete nazionale ha portato gli sceneggiatori a moderare il più possibile gli elementi più elitari. Il rischio di rendere la serie “complessa” da seguire e troppo “intellettuale” devono essere stati ben presenti in sede di scrittura. Ancor più se lo stesso Turturro ha dichiarato di essere intervenuto in prima persona per cercare di “portare” più Eco possibile nei dialoghi del proprio personaggio.
L’esempio più chiarificatore di questa situazione è l’utilizzo degli “oculi de vitro cum capsula“, gli occhiali, da parte di Guglielmo. Nel libro e nel film l’uso di questi da parte del francescano portano gli astanti a una reazione di stupore e perplessità. Ancor più nel libro vi è una vera e propria dissertazione sulla natura non demonica di questo strumento. Nella serie viene risolto il tutto con una sbrigativa spiegazione tecnica. Con il tempo a disposizione che garantisce una serie tv sarebbe stato forse meglio trovare un modo per rendere comunque fruibili al grande pubblico questi elementi essenziali: la cultura e la credenza del uomo medioevale, che sono parte determinante del lavoro di Eco e ossatura della sua grandezza.
L’ultimo elemento è però il più importante. E quello che per ora non permette di far dare un giudizio totalmente positivo a quanto visto finora.
L’atmosfera che si respira non ha nulla del lugubre e oppressivo dramma raccontato nel libro e mostrato nel film. L’abazia nel lavoro di Eco è, nella settimana in cui si svolgono gli eventi, il ricettacolo del male in terra. È la summa della malvagità e del peccato che dimora nell’ uomo. Nella serie tv di Battiato invece tutto ha un aria più rarefatta. Quasi patinata. La bravissima Antonia Fotaras che interpreta la ragazza occitana dai capelli rossi che avvicina Adso, non ha nulla della ruvida paesana descritta da Eco e interpretata da Valentina Vargas nel film del ’86. È impeccabile. Sempre ben curata e pettinata. Più una nobildonna che una villana. Nel suo senso più etimologico, ovviamente.
Quello che ci viene narrato dai dialoghi e mostrato dalle interpretazioni non trova sponda nel risultato complessivo. Tutto molto, troppo, piatto. La costante caduta verso il male a cui vanno in contro i personaggi risulta staccata e quindi svuotata di significato, da ciò che vediamo. Manca totalmente il senso claustrofobico di peccato e di malvagità che dovrebbe invece aleggiare e incombere sull’abazia. Il racconto di Eco dipingeva, così come il film di Annaud, il lugubre e oppressivo peso dei Secoli Bui. Guglielmo rappresentava la luce della ragione che si sforza di illuminare l’ignoranza del male. Dov’è tutto ciò? Va bene dover andare in prima serata su Rai Uno, ma un po’ più di coraggio sarebbe stato doveroso.
L’accesso alla biblioteca, poi, sarebbe dovuto essere il coronamento di un sogno quasi peccaminoso da parte di Guglielmo. Avrebbe dovuto insistere sul senso di proibito di ciò che stavano violando. Appare invece come una scampagnata biricchina di monelli di paese.
Tralascio volutamente l’assenza di un personaggio iconico come Ubertino da Casale, che permise a Eco e Annaud di mettere in scena alcuni dei più profondi e destabilizzanti dialoghi sul tema della donna nella società del medioevo e, ovviamente, sulla religione. Lo faccio nella speranza che questo venga recuperato nelle prossime puntate all’avvicinarsi della disputa.
Siamo solo ai primi episodi de Il nome della rosa quindi possiamo sperare che questo aspetto nel proseguo degli eventi venga corretto. Che ci venga riportata l’atmosfera lugubre e profonda del racconto di Eco e che pervade i Secoli Bui. Gli attori e i mezzi ci sono. Speriamo anche la volontà. Per ora questo ci da l’idea di un prodotto elementare con l’ambizione però di voler essere qualcosa di molto più elevato. Ma senza riuscirci. Confidiamo di non doverci trovare, alla fine, a esclamare come il deforme Salvatore: penitenziagite!