Lo diceva Hitchcock, e adesso lo ridice anche Gabriele Salvatores attraverso la voce e lo sguardo smarrito di Toni Servillo: <<Quello che ho fatto per voi è solo un film, per me è la vita intera.>> Sono queste le parole su cui Il Ritorno di Casanova, l’ultima opera di Gabriele Salvatores, fonda la sua storia. Leo Bernardi è un regista di talento, uno di quelli che hanno scritto la storia del cinema, una responsabilità grossa che ogni giorno gli viene rammentata attraverso il produttore, il tecnico, il Cinema di Venezia, un canale qualsiasi della Tv, da un passante per strada. Perfino la sua grande e perfetta casa gli ricorda che lui, Leo Bernardi, è il maestro del cinema, uno di quelli che nascono una sola volta ogni vent’anni, se va bene. Ma Leo Bernardi non c’è più. Con un richiamo evidente all’arte Felliniana, Il Ritorno di Casanova racconta le disgrazie e i tormenti di un uomo che vede il cinema come la sua più grande maledizione e benedizione. Quando gira un film sta davvero vivendo, quando non lo gira – invece – è costretto a tirare avanti e a sopportare. E’ un po’ come il Mastroianni di Otto e Mezzo, ma nel mondo di oggi. Se Marcello fosse stato qui adesso con il suo Guido Anselmi probabilmente le cose sarebbero state molto simili a quanto raccontato nella nuova opera di Gabriele Salvatores, un’opera che toglie per un attimo l’aspetto più mastodontico del cinema per far spazio a uno più intimo, umano, devastato, vulnerabile, rotto e disintegrato.
Leo Bernardi non ha segreti: lo sai fin da subito che con se stesso non ci sa più convivere. Quello che non sai è che, alla fine e chissà come, in qualche modo impara a farsi compagnia sopportandosi. Ma forse tutto questo non sarebbe mai successo senza lei, quella lei che a volte ricorda Claudia Cardinale
Leo Bernardi ha quasi finito il film, mancano le ultime mosse. Gli attori hanno recitato, la storia è stata scritta, il set è stato chiuso. Adesso manca solo lui, il suo ultimo tocco. Ma Leo Bernardi non c’è, e intendiamo letteralmente. Il suo destino, così pieno di tormenti, è in balìa del disordine, e questo ce lo ricorda bene perfino la sua perfetta e moderna casa da sogno. Quando il robot si inceppa e tutta la tecnologia di casa va in tilt distruggendo tutto, Leo Bernardi non fa il minimo accenno. Rimane disteso sul divano, quasi consapevole del fatto che prima o poi tutto dovesse esplodere. Non vi è neanche un attimo di panico. Con disinvoltura va in hotel, lasciando ciò è rotto tra le sue rovine. Esattamente come lui con se stesso.
Non c’è niente che possa andare peggio oramai, non adesso che Bernardi ha conosciuto tutto quello per cui alla fine conta continuare a convivere con se stesso. Gabriele Salvatores racconta infatti la storia di un regista che scopre solo a 63 anni cosa voglia dire amare qualcuno così tanto da spegnerti lentamente quando questo non c’è più. Una persona in piena crisi con se stessa ha paura di amare più di qualsiasi altro essere umano esistente nel mondo. Parte con uno svantaggio evidente che gli grida a gran voce che se nemmeno lui è riuscito ad amarsi, potrebbe essere molto difficile che qualcun altro lo faccia. E’ una partita già persa, un rigore non parato. Leo Bernardi ama solo il cinema, lo ama nella sua forma più pura. Ama farlo, non tutto quello che ne consegue. Non ama i concorsi, la critica, le interviste, le lodi. Dei film gli interessa soltanto il momento in cui può girarli, l’esatto istante in cui può ripararsi dentro una realtà alternativa in cui tutto, finalmente, va sotto il suo controllo.
E’ tutto scritto, e lo dirige lui. Non esistono imprevisti, cambi di rotta. Se dice a qualcuno di fare in un determinato modo, questo lo fa davvero. Se vuole riscrivere la propria storia attraverso il finale che avrebbe sperato e che mai si avvererà, è libero di farlo. Il cinema è la sua scialuppa di salvataggio, il momento esatto in cui si mette al riparo dal mare in tempesta e, con una mano che a malapena riesce a tirarsi fuori dalle onde, alla fine si salva. Un miracolo. Il miracolo del cinema.
Ed ecco la magia, ed ecco Toni Servillo. Di nuovo nei panni del suo vecchio e ancora fedele Jep Gambardella, Servillo dà vita a un uomo che forse sta ancora cercando la sua grande bellezza. Ma sono le cose come queste ad arrivare quando meno te lo aspetti, quando ti senti a un passo dal non poter più sopravvivere. Il cinema lo aveva salvato, ma il momento di girare i film finiva prima ancora che lui si rendesse conto di essere al sicuro. Leo Bernardi aveva bisogno di trovare un motivo per riuscire a sopravvivere anche quando la macchina da presa era spenta e il set troppo lontano, e lo ha trovato. Lo trova in lei, in quella ragazza che vive in periferia che gli racconta che la vita è ancora lunga e che, se lui non vorrà, lei avrà modo di andare avanti.
Ma Leo Bernardi non è qualcuno che vuole andare avanti. E’ un uomo che ama a fatica, uno che non capisce come si possa convivere tollerando i malumori altrui quando con i propri impegna giù un’intera giornata. Però poi alla fine finisce sempre così: qualcuno ti passa davanti, magari correndo e senza accorgersi che tu sia lì, e tu rimani immobile dove sei chiedendoti se alla fine sia così folle decidere di morire tra le braccia di qualcuno che potrebbe essere la tua più grande maledizione o benedizione. Abbandonarsi totalmente è folle, intendiamoci, ma nulla che non si possa fare almeno una volta nella vita, quella che poi ti porterai dietro per sempre.
Perché magari è proprio come il cinema, come fare un film: anche se non sai quanto dureranno le riprese, quel film durerà per sempre. D’altronde, come diceva Hitchcock: <<Per voi è solo un film, per me è la vita intera.>>