La recensione della 2×07 di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, probabilmente il più bell’episodio finora prodotto, passa dall’analisi di una puntata capace di unire la tanto agognata azione a una fine indagine sui contrapposti valori di forza e luce, male e bene.
Ai! laurië lantar lassi súrinen,
Ah! come oro cadono le foglie al vento
È questo il meraviglioso verso iniziale del Namárië, il canto dell'”Addio”, menzionato da Celebrimbor in questa 2×07 di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere. Namárië, conosciuto anche come Il lamento di Galadriel, esprime tutta la nostalgica lontananza dal paradiso di natura che era il Valinor. Gli elfi, erranti nella Terra di Mezzo, stranieri in mezzo all’oscurità, sono ormai separati dagli dei, dalla terra dei Valar, terra di pura luce. Ora tutto attorno è l’ombra che “si distende sulle onde spumeggianti poste fra di noi“. Su quel mare che separa irrimediabilmente le Terre Immortali dalla Terra di Mezzo. C’è spazio solo per il rimpianto, per l’Addio, nell’amara constatazione del dramma presente.
Nel verso iniziale del canto spicca l’aggettivo laurië associato con dolcissima allitterazione a lantar e lassi. Laurië esprime ciò che è dorato, “come oro”. Ma con questo eufonico termine Tolkien voleva indicare non tanto il metallo nella sua preziosa valenza economica quanto la lucentezza che ne scaturisce.
Laurië è ciò che brilla come oro, è abbagliante luce che illumina le tenebre.
Galadriel nel suo canto, nei lunghi anni passati come rapidi sorsi, cioè nella sua immortalità che travalica i millenni, vede sconsolata la luce che illuminava le tenebre, la luce dei Valar, cadere come foglie, come la luce dei due alberi di Valinor estinta a causa di Melkor, a causa del male oscuro. C’è il buio tutto attorno. Laurëa, la lucentezza, sembra spenta. Non rimane, in conclusione dell’ode d’Addio, altro che sperare che “Forse un giorno troverai Valimar“, ciò che è “Perso, perso per chi è in Oriente“. Eppure, in tanta oscurità, per gli elfi e per tutti gli abitanti della Terra di Mezzo una luce di speranza c’è. È là, “Sotto le azzurre volte di Varda // ove le stelle tremolano // alla voce del suo canto, voce sacra di regina”.
Varda, la Signora delle Stelle, colei che in un mondo ancora totalmente avvolto di tenebre sparge la luce delle stelle e permette Il Risveglio degli Elfi, la loro comparsa nell’universo. Le stelle del cielo, piccoli puntini pur tremolanti di pura luce in un mare di tenebre tracciano la rotta. Eterni, infiniti come granelli di sabbia. E a guardarli ci si rende conto, prendendo in prestito L’insegnamento di Rust Cohle, che “Adesso la luce sta vincendo“.
Se ne rende conto, improvviso, inaspettato, Celebrimbor mentre sfugge all’ombra di Sauron, a quell’offuscamento mentale che lo aveva portato in una prigione di apparenze, in un mondo di idee separato dalla realtà. “Quando il mondo è silente allora le idee possono fluire liberamente: il mio lavoro è quello di lasciarle condividere i segreti della loro canzone“, pensava a inizio di questa 2×07 di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere.
Ma a isolarsi dal mondo, a vivere in una realtà altra, nella metafisica (metà ta physikà, oltre le cose fisiche) dell’uomo di puro intelletto si finisce per perdere il significato di ogni cosa.
Celebrimbor non vede la morte e la distruzione attorno a sé perché è prima di tutto lui a non volerla vedere. “Fin dal principio una parte di me sapeva, una parte di me aveva visto ma io volevo quello che lui offriva così mi sono accecato davanti al suo vero essere“. Il fabbro dell’Eregion si è fatto accecare dalla fama, dal suo desiderio di potere e di forza. Il potere e la forza di cui Sauron è signore incontrastato. E ha ceduto a lui, come pure ha fatto Galadriel (“Io anche“, confessa a Celebrimbor), tutta tesa nel desiderio di distruzione del grande nemico.
Il mondo delle Idee ha condotto entrambi al di fuori della realtà, nell’oscurità di un dio, Sauron, che si maschera di lucentezza e doni, Annatar. Non è il buio assoluto, Sauron, non è Melkor. Non è la distruzione del creato fine a se stessa, la volontà di annientare ogni opera di Eru Ilúvatar. Sauron non vuole distruggere ma controllare. Possedere. Lui è il dio della forza, il dio del potere. È il fine che supera i mezzi, il machiavellico dominio della Tecnica che si afferma al di là di qualunque valore etico.
“Io vedo il fine, Celebrimbor, molto chiaramente. L’ho visto dal momento del mio risveglio. Ma il suo [di Melkor] fine era diverso dal mio perché ciò che desiderava distruggere io desideravo perfezionare“, confessa Sauron. Perfezionare per lui significa creare un “mondo di pace” in cui non ci sia più libero arbitrio ma soltanto sudditi fedeli a un dio potente e regolatore di ogni cosa.
Sauron è davvero, come capisce Celebrimbor in questa 2×07 di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, “Il grande ingannatore, riesci perfino a ingannare te stesso“. Perché si è convinto di fare del bene, nella sua idea di pace.
Creare gli anelli significa soggiogare elfi, nani e uomini. Controllarne quelle basse, viscide pulsioni che li portano a provare invidia, desiderio di vendetta e potenza. Sotto di lui Sauron immagina un regno perfetto, più perfetto di quello pensato da Eru Ilúvatar perché privo di morte, sofferenza, arrivismo, sopraffazione. In questo, il suo canto diverge pericolosamente da quello di Dio ma anche da quello di Melkor: nel potere posto sopra ogni cosa. Nell’inganno che muove perfino a se stesso non si rende però conto che è proprio l’amore di Eru per le sue creature a necessitare del dolore, della perdita, del peccato. Solo creature immensamente libere, libere anche e soprattutto di sbagliare, possono essere davvero se stesse.
Sauron, nascondendo dietro il desiderio di giustizia la sua brama di potere non si accorge di volere un mondo popolato non da esseri viventi ma da fantocci, manichini privi di volontà.
Questa per Tolkien, formato nella sua vita agli orrori delle guerre, molto più dell’originaria malvagità di Melkor, è la nuova oscurità. Il buio di chi in nome della giustizia, del progresso, della Tecnica, ambisce al potere perseguendolo con ogni mezzo. Di fronte a una forza tanto grande, a un dio capace di plagiare le menti, guidare eserciti, annientare popoli e nazioni cosa possiamo noi? Il che significa, in Tolkien: cosa possiamo noi di fronte alla Grande Storia, ai potenti che muovono guerra al mondo? Il lamento di Galadriel arriva fino a noi e torna indietro in questo episodio di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, nella rassegnata consapevolezza della dama elfica che afferma “Non ero abbastanza forte“. L’oscurità della Terra di Mezzo la avvolge, in lei risuona più forte che mai il nostalgico Namárië, il canto d’Addio alla beatitudine delle origini.
Orde di orchi imperversano nell’Eregion mentre Adar come Sauron inganna se stesso nascondendo la sua ossessione per il potere, per la detronizzazione di Sauron, dietro vuote parole di amore per le proprie creature: “I miei figli hanno tollerato crudeltà che i tuoi più coraggiosi non sopporterebbero nemmeno di ascoltare“. Ma è evidente che l’affetto per i suoi uruk sia nulla in confronto al desiderio di potere. Se ne accorge il suo più stretto e potente luogotenente, quel Glûg che vede mandare a morte i suoi fratelli come pedine di una battaglia più grande. Adar senza scrupoli chiama in campo anche il mostruoso troll delle colline ben sapendo che avrebbe ucciso indifferentemente orchi ed elfi. Anche il signore degli orchi è accecato dall’inganno di Sauron, dalla brama per il potere che non gli fa capire di stare perdendo l’appoggio di un popolo mandato al macero.
Così Sauron si riprenderà il suo esercito in un inevitabile ammutinamento finale.
E intanto morte e distruzione imperversano nell’Eregion. L’oscurità si estende senza fine e neanche l’alba pare annunciare la vittoria della luce. I nani di Durin non si presentano per lottare al fianco di Elrond e la fine sembra inevitabile. Non siamo abbastanza forti di fronte all’oscurità. Non lo è stato Elrond, non lo è stata Galadriel e tantomeno Celebrimbor. Eppure, dall’oscurità che dominava incontrastata l’inizio dei tempi sono emersi piccoli puntini di pura luce ed è a questi che dobbiamo affidare il nostro grido di speranza, aggrappati a Varda, la Signora delle Stelle, invocata anche da Frodo mentre affronta il mostruoso aracnide Shelob.
Celebrimbor torna alla realtà, torna dal mondo di pure idee, rituffandosi in un mare di sofferenza, orrore e distruzione ma anche consapevolezza e coscienza. Non può essere allora che lui in questo episodio di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere a cogliere la speranza che scorre silenziosa e delicata nell’invisibile mondo. “Nessuno di noi era abbastanza forte. Magari non c’è nessuno nella Terra di Mezzo che lo sia ma può darsi che gli elfi debbano solo rammentare che non è la forza che prevale sull’oscurità ma la luce. Le armate possono sorgere, i cuori possono cedere, tuttavia la luce resiste ed è più maestosa della forza perché alla sua presenza ogni oscurità deve svanire. Namárië“.
Ecco la risposta, la risposta di Celebrimbor e la risposta di Tolkien.
Se concepiamo la nostra vita in termini di forza e potere, nessuno può avere la meglio su Sauron. Sauron troverà sempre il modo di manipolare, ingannare, offuscare la mente già predisposta verso il desiderio di potenza. Ma se gli elfi ricordano Varda, la Signora delle Stelle, colei che porta luce e risveglio al suo popolo, l’oscurità non può averla vinta. Ai! laurië lantar lassi súrinen, Ah! come oro cadono le foglie al vento. Ma quelle laurië lassi, quelle foglie lucenti come oro, anche se cadono, non smettono di brillare.
Lassù, nel cielo, sempre la luce delle stelle rischiara il buio del potere e non c’è esercito, non c’è distruzione che possa resistere alla Fiamma Imperitura di Eru Ilúvatar, a quel fuoco lucente come oro che è ruach, direbbero gli ebrei, “spirito, vento, essenza” che anima ogni essere vivente. La luce di Dio che splendente come stelle dorate rende tutto il creato eternamente mosso da una speranza. Dalla speranza di Eru Ilúvatar che dirada le tenebre della forza con luce dell’amore.