Campi, campi a perdita d’occhio. Una distesa placida, ininterrotta, tranquillizzante di verde, d’erba, di colline digradanti e fiumiciattoli rigogliosi. Il lento scorrere della vita di contadini che arano la terra, amano la terra, maledicono la terra, fanno pace con la terra. Su quella terra si spaccano la schiena ma prendono forma. Trovano senso, appartenenza. E nella fatica, nella frustrazione, nell’abnegazione ecco, infine, anche inesausta bellezza. Quei paesaggi, quella terra sono sotto gli occhi di un ragazzino che osserva, corre, si nasconde sotto il frondoso frassino. Assapora l’odore intenso del biancospino, si nasconde nel basso sambuco dolce di bacche. Non è la contea o il verde mondo di Arda apparso nei precedenti episodi di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere. No, è un luogo di questo mondo, qualcosa di reale ma ormai terribilmente, forse irreparabilmente lontano da noi.
Siamo nella Birmingham di fine ‘800.
In una Birmingham lontana anni luce da quella di Peaky Blinders, inscindibilmente legata, quest’ultima, all’oscura, combattuta e contraddittoria personalità del suo protagonista. Eppure d’improvviso, con un trapasso brutale e traumatizzante, quel bambino vede materializzarsi proprio questo malsano futuro: il fumo delle fabbriche, l’abbruttimento degli uomini, l’innalzamento di santuari industriali di tremenda oscenità. Cadono gli alberi, abbattuti dai colpi della scure, “Grandi carri occupavano un campo ove un tempo cresceva un prato“, “Stanno sempre a martellare, non c’è pace neanche di notte“. Tutti i frassini scompaiono e un “Fumo nero e puzzolente” invade e divora l’aria.
Il giovane Tolkien vede il mondo trasformarsi davanti ai suoi occhi. Vede l’arrivo di Saruman che “ha una mente di metallo e ingranaggi, a lui non interessano più le cose che crescono“. La sua contea, la sua Birmingham finisce sotto l’influenza di un oscuro signore proprio come accade a Hobbiville durante la Guerra dell’Anello. Lotho Sackville-Baggins, corrotto da Saruman, pretende che si produca di più, che si meccanizzi la raccolta del grano, che i carri solchino le strade della Contea a costo di sacrificare i campi, i fiumi, la vita. Questo è il male di Sauron e di Saruman, un orrore che va contro la Natura, contro la bellezza. Un orrore che pone lo Sviluppo e la Tecnica al di sopra di tutto il resto.
È l’industrializzazione che abbiamo ben a mente nelle immagini devastate di Isengard in Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello. Saruman sventra il suolo, divelte alberi, prosciuga torrenti. Il tutto per produrre i suoi mostruosi, aberranti Uruk-hai. Per produrre mostri. Tolkien prima di tutti noi, prima dei disastri ambientali, degli orrori industriali, della natura che si ribella violenta e ferita ai nostri oltraggi pativa su di sé la perdita della bellezza. La perdita dell’infanzia e dell’innocenza. E come millenni prima di lui aveva fatto un famoso poeta parlando di frondosi faggi e gorgoglianti fiumi anche Tolkien provava a salvare almeno il ricordo, la scintilla della Fiamma Imperitura di Eru, a modo suo. Creando racconti immortali.
Per Tolkien il male è anche e soprattutto la colpa di chi va contro natura, di chi vuole distruggere la Natura.
Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere recepisce questo messaggio e dedica un intero episodio, questa delicata 2×04, al tema. Lo fa partendo da una figura magnificamente resa in accordo alle descrizioni di Tolkien. Un “uomo” che vive in connubio con la Natura, con la testa tra le nuvole, più antico quasi del creato stesso. “Tom c’era prima del fiume e degli alberi, Tom rammenta la prima goccia di pioggia e la prima ghianda. Ha conosciuto l’oscurità sotto le stelle quando non c’era da impaurirsi” (2×04).
Tom Bombadil è l’allegoria inevitabile di un autore che odiava le allegorie e preferiva all’insegnamento allegorico quello narrativo di una storia che si dipana tra mille avventure. Ma Tom Bombadil esiste prima del Signore degli Anelli. Esiste nei racconti di Tolkien ai suoi figli, esiste nell’immaginazione vivace di un bambino che guardava la bellezza naturale della sua contea. Bombadil non è un uomo, non è uno Stregone. Per decenni si è tentato di dare una spiegazione alla sua natura e alla sua presenza in Arda. Infinite le interpretazioni ma nessuna è -e sarebbe- piaciuta a Tolkien. Troppo cerebrali, troppo aride.
Bombadil per Tolkien è semplicemente la luce di un ricordo. È il centauro Chirone che nella Medea di Pasolini cresce Giasone per poi scomparire quando il bambino si fa uomo. Quando cioè il pensiero magico muore. Bombadil è la natura senza lo sguardo razionale della scienza umana. È la natura come la indaga un bambino. Col suo occhio curioso, meravigliato, magico. Tom Bombadil è vivo come giocattolo dei figli di Tolkien finché i bambini lo vedono vivo. Finché hanno la fantasia per farlo.
Luce che sopravvive, speranza residua.
È ciò che resta degli alberi di Valinor, Fuoco segreto, essenza divina di Eru Ilúvatar. Bombadil non può naturalmente vincere Sauron nonostante sia immune dall’anello e con il solo apparire metta in fuga i Nazgûl e gli Spettri dei Tumuli, questi ultimi presenti proprio in questa 2×04 di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere in anticipo rispetto alla loro comparsa secondo il canone tolkieniano. Tom Bombadil pur con questo immenso potere non può contrastare Sauron perché, come spiega Tolkien nella Compagnia dell’Anello, ne sarebbe facilmente sconfitto “Se tutto il resto fosse soggiogato“. Per questo in Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere afferma “Io non sono un guerriero“.
Bombadil non esiste senza la natura. Non esiste al di fuori della Natura. E per quanto pure sia una forza ancestrale e devastante, superiore a tanti e immune forse a tutti, non può nulla di fronte a chi devasta la natura. Sauron non ha bisogno di sconfiggerlo -non ci riuscirebbe probabilmente- ma gli basterebbe portare a termine il suo sogno: fare di tutta Arda una brulla, oscura Mordor. A quel punto la luce di Bombadil, il fuoco di Eru, si estinguerebbe. Perirebbe in una notte senza fine.
Bombadil è la Natura devastante e benigna, dispettosa come un satiro di bosco, dolce come un placido torrente, tremenda come la tempesta improvvisa. Il suo volto rubicondo è l’abbondanza di chi dona vita e il fare stralunato è il placido disinteresse della potenza generatrice che non bada alle faccende umane. Ma se la natura, se Bombadil non può salvare il mondo, può essere guida per chi deve salvarlo. Per Gandalf che negli Anelli del Potere cerca ancora se stesso e che ha bisogno della Natura per trovare confidenza con l’incarnazione, con il mondo fisico che, da Maiar qual era, non è abituato a padroneggiare.
Tom in Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere deve allora guidare lo Stregone.
Metterlo in guardia da quei pericoli dell’incarnazione, dalla possibilità della caduta, dalla tentazione a cui neanche Cristo, Dio Incarnato, riesce, da uomo, a sottrarsi. Quello che salva e salverà Gandalf condannando invece Saruman alla corruzione è proprio il rapporto privilegiato del primo con la natura. Per Saruman la natura è un mezzo, uno strumento da sfruttare per produrre, in una visione industriale, utilitarista. Per Gandalf invece la Natura è bellezza, fuoco vivo del Creatore, luce benigna. Ed è per questo che amerà tanto la contea. Per questo affiderà il compito più importante per la salvezza di Arda a degli hobbit, piccoli ma puri nel loro rapporto con l’ambiente (almeno fino all’arrivo di Saruman).
Dovranno essere loro a porre fine all’avanzata dell’artificiale e artificiosa oscurità di Mordor. Di fronte al cambiamento, invece, Tom Bombadil, come il piccolo Tolkien, può solo amaramente constatare che “Questo posto una volta era verde, ora… è tutta sabbia” (Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, 2×04). E nulla possono anche gli Ent, protettori di alberi e animali. In questo episodio attaccano i selvaggi, rabbiosi e vendicativi per una natura che non viene rispettata neanche dall’elfo Arondir (“Hai mai fatto toccare accetta a vita legnosa?“, “Con mio grande dolore l’ho fatto“). Possono solo affidarsi alla promessa che gli orchi che “versano linfa e incendiano il ramo” siano sconfitti. La Natura, pur ribellandosi, non può da sola rimediare al male perché agisce indiscriminatamente nelle sue devastazioni, nella Grande onda che travolgerà Numenor.
E allora ecco Arondir, e Isildur, e Gandalf, e i Pelopiedi, e gli Hobbit, e Galadriel e tutte quelle forze del bene che costantemente in questo episodio si trovano immerse in un’oscurità che ricorda il fumo di Birmingham. Dall’altro lato c’è il male. Lo sviluppo indiscriminato, la devastazione, l’oscura scienza che piega la natura generando mostri. Come fa lo Stregone Oscuro, forse un altro degli Istari già convertito al male (come accadrà a Sauron). D’altronde in La storia della Terra di Mezzo, The Peoples of Middle-earth si legge che due Stregoni potrebbero essere giunti prima degli altri, già durante la Seconda Era seppur per motivi diversi.
Due forze a confronto, due visioni del mondo, due ricordi del giovane John Ronald Reuel Tolkien.
Natura e Tecnica, bellezza e brutalismo industriale, Tom e Sauron. Birmingham di fine Ottocento e Birmingham di inizio Novecento. Oggi più che mai sentiamo su di noi questo confronto. Vediamo e patiamo i segni di una natura che si ribella senza far distinzione di buoni e cattivi. Assistiamo alla scomparsa di alberi ed esseri viventi, al suolo trivellato e impoverito, al grigiore industriale che investe il paesaggio. E ci sentiamo come Tom Bombadil: tristemente impotenti.
Ma la speranza è pur viva, racchiusa nella luce di un racconto che è memoria e fuoco di bambino divenuto uomo. Lo è stata, viva, allora, deve pur esserlo, ora, con la promessa che siamo tenuti a fare, come Arondir, che “Ci impegneremo a che gli alberi di questa foresta siano lasciati in pace“. Che la Birmingham di Tolkien, che le nostre Birmingham, tornino a essere contee placide e rigogliose.
Emanuele Di Eugenio