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Killer Soup è gustosa al punto giusto (ma occhio alle abbuffate) – Recensione della serie indiana su Netflix

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ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Killer Soup.

Distribuita da Netflix lo scorso 11 gennaio, Killer Soup è la nuova serie indiana (sottotitolata) che potrebbe sorprendere il pubblico italiano, se curioso di esplorare nuovi sapori in fatto di serie televisive.
Scritta e diretta da Abhishek Chaubey, considerato tra i nuovi talenti della cinematografia indiana, Killer Soup è una dark comedy con addentellati crime che ricorda molto quei gialli inglesi pregni di black humor, alla The Ladykillers, di Alexander Mackendrick, per intenderci.

La produzione è particolare e mostra delle peculiarità – non necessariamente positive – che meritano un approfondimento: prima fra tutti l’insistente desiderio da parte del regista di mostrare la stravaganza dei personaggi, in particolar modo quelli di contorno, mettendoli spesso in situazioni al limite del macchiettistico. Se inizialmente questa modalità sembra essere la carta vincente per la creazione un piccolo gioiellino, alla fine risulta ripetitiva e un po’ esagerata tanto da appesantire, anziché alleggerire, la narrazione. Ciononostante le otto puntate da una quarantina di minuti l’una si guardano tranquillamente e la missione di intrattenere risulta compiuta.

Anche perché sono gli stessi attori a dare quel di più risultando, tutti, davvero bravi e convincenti. In particolar modo le due protagoniste femminili, Konkona Sen Sharma e Anula Navlekar, rispettivamente nei panni di Swathi Shetty e Apeksha Shetty, zia e nipote. Le due donne, inarrestabili nel voler raggiungere l’obiettivo che si sono prefissate, tengono la barra della serie attraverso una recitazione mai sopra le righe, davvero efficace perché verosimile. Attorno a loro il cast maschile vede spiccare Nassar, nei panni di un poliziotto anziano ormai disilluso costretto dalla sua coscienza (e dalle visioni quasi continue del cadavere di un suo sottoposto) ha prendere in mano le redini di un caso ingarbugliato, e soprattutto Manoj Bajpayee, nel doppio ruolo di Prabhakar Shetty (marito di Swathi) e Umesh Pillai (amante di Swathi).

Konkona Sen Sharma, 640×360

Rimanendo nel campo dell’oggettività vanno segnalate la bellezza dell’impianto scenografico e la fattura della fotografia capaci di regalare scene colme di piccoli dettagli e colori sfavillanti. Alcune inquadrature arricchite da una luce quasi immateriale forniscono allo spettatore momenti davvero coinvolgenti.
Sempre oggettiva, però, è la sensazione che il tutto si sarebbe potuto, forse addirittura dovuto, concludere in maniera più rapida. Non che Killer Soup sia noiosa, tutt’altro. Ha carattere, è saporita il giusto ma alla lunga sembra non riuscire mai ad arrivare al punto. Se inizialmente le novità che vengono inserite fanno sorridere e alimentano il tutto come in un crescendo rossiniano dopo un po’ i continui ingressi di personaggi e gli inserimenti di sottotrame danno l’impressione che si stia allungando il brodo. Il risultato finale è una soup con troppi ingredienti che, seppur ben amalgamati, perdono di identità dimostrandosi privi di gusto specifico.

In questo Killer Soup c’è un fondo di verità. A quanto si legge sui giornali indiani nel 2017 una donna ha ucciso il marito e poi sostenuto di fronte agli inquirenti che il suo amante, in realtà, fosse il suo coniuge. Ciò che ha tradito l’assassina e il suo complice è stata, parrebbe, una discrepanza sulle preferenze alimentari del defunto, in particolare su una zuppa di montone. Pare, inoltre, che i criminali, secondo i resoconti dell’epoca, si siano ispirati a un film di qualche anno prima, tutto basato sul cambio di identità di uno dei personaggi. Niente di nuovo, insomma. La commedia degli equivoci, in qualche modo, è servita.
Killer Soup riprende proprio questo tema. Swathi è sposata Prabhakar ed è decisa ad aprire un ristorante. Per cercare di realizzare il suo sogno prende di nascosto lezioni di cucina da una donna alquanto particolare. Ogni giorno, mettendo in pratica le lezioni ricevute cucina una certa zuppa al marito che, giustificandosi con l’acidità di stomaco, evita di mangiarla trovandola indigesta (per usare un eufemismo). Prabhakar ha un fratello maggiore che, nella regione fittizia in cui vivono, è considerato un boss. Vive nella sua ombra e ogni volta che cerca di emanciparsi combina qualche disastro. Così, per rilassarsi, va a farsi massaggiare da Umesh che è anche l’amante di sua moglie.
Swathi e Umesh hanno una discussione perché lei non è certa di voler mollare il marito per mettersi con il massaggiatore. Soprattutto conta molto sui soldi del cognato per il suo ristorante, convinta che Umesh non potrà mai aiutarla a realizzare il suo sogno. Durante la discussione, che si svolge a casa di Swathi, irrompe il marito. Scoppia una discussione e Prabhakar, intento a strangolare la moglie, viene messo definitivamente KO da Umesh.
A questo punto Swathi si scopre una mente diabolica. La donna ordisce un piano che prevede la sostituzione del marito con Umesh, al quale viene gettato bruciata la faccia per cancellare un occhio strabico. Da qui in poi la storia, come un palla di neve, comincia a gonfiarsi e diventare una valanga difficilmente contenibile. I morti si accumulano piano piano e i protagonisti sono obbligati a combinarne di cotte e di crude per cercare di salvarsi dalla prigione.

Killer soup
Killer Soup, 640×360

Il continuo concatenarsi di eventi travolge lo spettatore che a un certo punto comincia a porsi delle domande del tutto legittime. Ci sono momenti, per esempio, nei quali si ha l’impressione che la serie viri verso il sovrannaturale, un po’ come accadeva in Choona, altra serie indiana su Netflix. In realtà è soltanto un espediente mistico utilizzato per portare avanti la trama. Altri, invece, sono intrisi di poesia, letteralmente, tanto da aggiungere una nota sentimentale. Entrambi non risultano fastidiosi ma spiazzanti, questo sì.
Killer Soup risulta così essere bizzarra, persino eccentrica. Tanto che le risposte alle domande di cui sopra sembrano non arrivare mai. Non è un thriller carico di suspense eppure è scritto in maniera tale da obbligare lo spettatore a restare incollato allo schermo chiedendosi, con un sorriso e un certo stupore, fin dove gli autori si possano esser spinti.
La trama, in certi momenti, sembra ingarbugliarsi eccessivamente perché ciascun personaggio mette in campo la sua storia. La regia, però, riesce a gestire il tutto sorprendendo lo spettatore che sembra in attesa di veder crollare il tutto.

Konkona Sen Sharma (Swathi) e Manoj Bajpayee (il marito e l’amante) dimostrano di avere una chimica davvero molto intrigante. Sono in grado di trasmettere tutte le sfumature che caratterizzano i loro personaggi tanto da trionfare come immorali delinquenti e al tempo stesso mostrare ciascuno un lato di redenzione. Lui, travolto dai sensi di colpa e dalla paura di non essere all’altezza; lei mostrando un sincero affetto, ricambiando, nei confronti della nipote Apeksha.
A essi vanno aggiunti i personaggi di contorno che anche in poche battute sono davvero in grado di lasciare il segno.


Killer Soup è uno spettacolo piacevole, che si può guardare. Non ha la pretesa di essere un capolavoro ma può sorprendere, persino lasciare il segno.

La sua comicità e la sua cupezza si fondono insieme allegramente permettendo allo spettatore di lasciar da parte quei dettagli che si perdono per strada e godersi appieno di tutto quello che rimane nel piatto. Una sorta di All You Can Eat dove si bada soprattutto alla quantità e un po’ meno alla qualità (comunque buona e non indigeribile).