ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler su Kubra, la serie turca disponibile su Netflix dal 18 gennaio.
Il potere delle parole è smisurato, perché smisurati sono i simboli che ciascun individuo connette alle parole. Le parole possono risollevarti o buttarti a terra. Possono lacerarti o spingerti all’azione. Possono ingannare o salvarti. Creare sconquassi o cambiare il mondo. La parola conserva una dimensione simbolica che trascende il semplice campo semantico e va oltre, attecchendo nella psiche dell’individuo, palpeggiando le sue corde interiori. Kubra, la nuova serie tv turca disponibile su Netflix dal 18 gennaio, è un prodotto che sfrutta innanzitutto il potere delle parole. Lo fa in maniera originale, spingendosi ai limiti e sottoponendoci una storia che mette in discussione l’impatto stesso della comunicazione e le sue estremizzazioni. Lo show è spalmato su otto episodi da una quarantina di minuti ciascuno e ci lascia con un finale che apre alla possibilità di una seconda stagione. È una serie tv lenta, che si prende il suo tempo per imbastire la figura di un moderno Messia turco che predica amore, pace, solidarietà e filantropia. Il ruolo del protagonista è affidato a Çaatay Ulusoy, un attore turco piuttosto noto anche al pubblico internazionale, famoso per aver recitato in The Protector, serie disponibile sempre su Netflix. Çaatay Ulusoy è Gökhan, un ex soldato dell’esercito che è sopravvissuto allo sterminio del suo plotone e ha rifiutato una medaglia al valore militare da parte del governo turco. Profondamente cambiato dall’esperienza della guerra e della morte, Gökhan è tornato a casa abbracciando una filosofia di vita completamente nuova. Il protagonista sente di dover fare del bene, come una sorta di risarcimento al male che ha visto e di cui, in parte, continua a sentirsi responsabile.
Le prime sequenze di Kubra ci mostrano Gökhan intento a salvare un bambino e restituirlo alla sua famiglia.
La sua piccola comunità lo saluta come un eroe, esaltandone il coraggio e il sangue freddo. E Gökhan inizia a sentirsi diverso. Capisce che la sua esistenza deve essere votata a qualcosa di più grande, al bene comune. E mentre si convince di voler improntare la propria esistenza al prossimo, iniziano ad arrivargli strani messaggi sul cellulare. A parlare è un utente sconosciuto, che però sembra conoscere troppi dettagli della sua vita. Sa della fidanzata Merve (Aslhan Malbora) e dell’imminente matrimonio, conosce la sua vita privata e la devozione per Allah e inizia a predire una serie di eventi che puntualmente si verificano, come se dall’altra parte della tastiera si celasse un’entità sovrannaturale. È qui, nel bisogno di Gökhan di sentirsi diverso, che attecchiscono le parole di Kubra, il misterioso utente che prevede gli incidenti e indovina le diagnosi dei malati. Il protagonista è un predestinato che parla con Dio (come il Messiah dell’altra serie Netflix, cancellata dopo una sola stagione). Un profeta dell’era moderna, un Messia cui viene affidato il messaggio di Allah, che è un messaggio di pace e di amore. Gökhan non mette mai in dubbio quello che vede e che sente, non solo perché la sua fede è forte, ma anche perché ha bisogno di credere che tutto ciò che gli sta accadendo sia reale. Nasce così una vera e propria comunità attorno a Gökhan. Arrivano le prime donazioni, i primi accoliti e anche le prime richieste di aiuto. Il profeta che parla con Allah diviene oggetto delle curiosità e degli appetiti di stampa, politica, curiosi e frequentatori di social network. Ma non tutti credono nei miracoli e nelle parole scritte per messaggio da un Dio lontano a un predestinato qualunque, perciò di pari passo con la devozione, crescono anche sentimenti negativi come l’invidia, la gelosia, l’irritazione, il fanatismo, la collera.
La serie cammina accanto al suo protagonista, senza lasciarlo neppure per un secondo.
Il resto delle storie sfuma sullo sfondo, il cuore della narrazione è Gökhan con i suoi dubbi interiori, le sue conversazioni con Allah, le sue preghiere solitarie. Il canovaccio di Kubra ricalca quello delle storie di profeti e messia: uomini integerrimi che abbracciano la fede e si vedono caricati di una responsabilità sovrumana, un potere più grande di loro stessi che, se da un lato li rende speciali, dall’altro li rende vulnerabili e fragili. Il pilot è molto interessante perché contiene tutte le (ottime) premesse della serie. Poi Kubra rallenta e si concentra sul percorso spirituale del suo protagonista, mettendogli in bocca parole d’amore e di solidarietà che sono la risposta a qualsiasi tipo di intoppo nell’intreccio. La rettitudine di Gökhan lo rende un personaggio molto divino e poco terreno. A parte i momenti in cui vacilla per il peso di essere il portatore del messaggio di Dio, il protagonista sembra realmente diverso dal resto del mondo, forse pure troppo. La sua integrità e incorruttibilità, l’assenza di macchie e la probità con cui si fa largo sul suo cammino, lo rendono un personaggio con cui non si riesce a entrare in empatia, se non negli episodi iniziali, quando il pubblico riesce ad immedesimarsi con più facilità nei comportamenti incerti dell’uomo, che non sa ancora di essere il Profeta di Dio. Dal secondo episodio in poi, Kubra si trasforma in una lunga predica in cui Gökhan cerca di tracciare il cammino verso una vita giusta e ispirata al messaggio di Dio (esteticamente, il protagonista ricorda vagamente il Christian della serie Sky che pure parla di religione). Un pizzico ridondante, la serie si trascina fino al settimo episodio quasi con stanchezza. È solo lì, quando ormai Kubra ci ha fatto allungare il collo a sufficienza, che arriva il grande plot twist che sbaraglia tutte le carte in tavola.
Si tratta in effetti dell’unico vero colpo di scena della serie, ma è il capovolgimento di fronte che serve a rimettere tutto in discussione e a capire il vero messaggio di Kubra. L’inganno colossale che è alla base del “dialogo con Allah” dice molto del potere della fede e dei moderni strumenti di comunicazione. Kubra sembrava aver messo in guardia il protagonista dal potere nefasto delle nuove tecnologie. E in effetti sono proprio quelle ad aver messo su la finzione nella quale è cascato lo stesso Gökhan. In un mondo che ha bisogno di aggrapparsi a qualcosa di inafferrabile per non precipitare nel baratro, il protagonista si è abbarbicato attorno all’idea di essere diverso e di essere il portatore di un messaggio rivoluzionario. L’individuo deve sentirsi speciale, gli serve per darsi uno scopo e sopravvivere. Per Gökhan, essere il messaggero di Allah è anche un modo per redimersi dalla sua vita precedente, l’occasione per poter fare qualcosa di buono. Kubra ha sfruttato il bisogno intimo dell’uomo di sentirsi diverso per stravolgere le fondamenta del mondo. La fede diventa uno strumento, un canale attraverso cui veicolare rabbia, frustrazione, bisogno di rivalsa. Questa serie vuole metterci in guardia dal potere potenzialmente illimitato delle nuove tecnologie, in grado di ingannare le menti e far vacillare la ragione. Ma vuole anche testimoniare di come la fede sia un sentimento ancora ben radicato nelle coscienze degli individui, che uniti attorno a un credo comune, sono in grado di mettere a soqquadro il mondo. Scoperto il trucco, smontata la messinscena, ci si lascia sfruttare o si diventa sfruttatori? Il finale di stagione ci lascia con la curiosità di vedere come si evolverà la storia. La serie turca è già nella Top 10 dei titoli più visti di Netflix, perché le premesse sono sufficientemente allettanti da convincere lo spettatore ad avventurarsi nella visione. Se la parte centrale di Kubra appare ridondante, ripetitiva ed eccessivamente prolissa, il finale ribalta tutto, anche i giudizi sul prodotto. È una serie che ha del potenziale e che si deve avere la pazienza di guardare fino in fondo (ma proprio in fondo) per rimanerne stupiti.