La Casa de Papel Corea è uscita su Netflix venerdì 24 giugno alle 9.00 ora italiana e, a oggi, occupa la terza posizione nella Top 10.
La Casa de Papel Corea: una premessa e un po’ di numeri
Prima di addentrarci nell’analisi, una domanda: La Casa de Papel Corea scalerà la classifica nelle prossime settimane? È vero, era un caldo venerdì sera di fine giugno e questo può spiegare la predilezione per un weekend fuori porta, passeggiate sul mare, ristorantini all’aperto. Tuttavia, quando è uscita la quarta stagione di Stranger Things era sempre un caldissimo venerdì (27 maggio), ma l’hype ci aveva spinti così in alto che siamo rimasti collegati e, nel giro del weekend, la Nostra schizzava al primo posto, raggiungendo un record di 287 milioni di ore di visione.
E cosa dire di Squid Game? Diffusa sempre il venerdì, 17 settembre 2021, in quattro settimane, ha attirato 111 milioni di account per un totale di 1,65 miliardi di ore di visualizzazione, scalando le Top Ten Netflix di 90 paesi e divenendo la Serie Tv Netflix più seguita di sempre a ridosso del lancio, più di Bridgerton.
La Casa de Papel Corea compete con questi numeri e con le alte aspettative che il cinema e la serialità made in Corea del Sud hanno generato negli ultimi anni. A partire dal felice clamore della Palma d’Oro a Cannes per Parasite (2019) di Bong Joon-ho, thriller dai toni tragicomici con cui la cultura coreana sta conquistando il pubblico e la critica occidentali.
A incrementare le aspettative per il remake La Casa de Papel Corea ci sono anche le statistiche de La Casa de Papel originale, la cui quinta stagione nel primo mese ha totalizzato 792 milioni di ore viste.
Squid Game e La Casa de Papel, le due brillanti stelle Netflix più viste di sempre, creano un binomio dal potenziale esplosivo per predisporre l’audience mondiale e dare alla luce una crasi di entertainment vertiginosa come avrebbe potuto essere (ma non è stata) La Casa de Papel Corea.
L’originalità densa, surreale e iperreale della scrittura filmica e dell’estetica coreana, emblematicamente rappresentata a livello visivo dai colori e dalle forme di Squid Game, e a livello auditivo dalla peculiare stravaganza del sound K Pop e dell’overacting recitativo, ne La Casa de Papel Corea purtroppo si perde. O meglio, si disperde.
Come nella modernità liquida teorizzata da Bauman, i legami tra i due fenomeni culturali globali (La Casa di Carta e Squid Game), anziché saldarsi ed esplodere in un terzo dirompente fenomeno pop, si sciolgono l’uno nell’altra, insipidamente.
Di certo l’enfasi sul brand originale La Casa di Carta – le tute rosse, la maschera di Dalì, i volti dei protagonisti indissolubilmente legati alle città di cui portano il nome, il magnetismo intellettuale del Professore – rappresentava una forte sfida e un’arma a doppio taglio per la realizzazione di un remake. Non solo in termini di immaginario collettivo ma anche di narrazione. Ed è qui che Netflix sembrava aver tirato a segno un ottimo colpo nell’idea di gestire la distribuzione de La Casa de Papel Corea, regia di Kim Hong-sun dal soggetto di Alex Pina. Chi, infatti, meglio dei coreani poteva realizzare un remake unusual, sorprendente, incisivo, al pari e più dell’originale spagnolo?
In effetti l’incipit è coinvolgente, depone benissimo.
Ci trasporta in Corea lasciando immaginare un taglio nuovo, dato alla serie, nel quale vince la sapienza narrativa per cui “il particolare è universale”. Non un remake fedele al punto da fare i copia e incolla, ma una rivisitazione attraverso cui far emergere le specificità multiculturali della Corea che affascinano noi europei.
Nelle prime scene La Casa de Papel Corea sembra così, inedita, tagliente. L’effetto è dirompente.
Sentiamo le note di DNA dei BTS, band K Pop amata in tutto il mondo, nelle cuffie di una giovane Jeon Jong-seo che interpreta Tokyo e fa da voce narrante (come nell’originale). Tokyo ci racconta un universo lontano, segnato dal tragico conflitto tra Corea del Nord e Corea del Sud, due stati di tensione divisi dalla storia al 38° parallelo, simbolica linea che spezza un paese in due opposte concezioni del mondo: quella socialista e quella capitalista. Qui avviene il primo guizzo motorio della serie: La Casa de Papel Corea non presenta un paese scisso ma uno scenario fantapolitico di un prossimo futuro (2025) in cui le due Coree vengono pacificamente unificate, concordando la strada comune dello sviluppo economico globale.
La storia della rapina quindi inizia in modo assolutamente originale, mostrandoci la sede della Zecca posta nella Joint Economic Area che ha sostituito la reale zona di sicurezza, dove si prevede la stampa della nuova valuta comune; e la giovane Tokyo che lascia il Nord per cercare benessere nel Sud democratico filoccidentale. Il capitalismo ostenta però i suoi lati oscuri e feroci, e Tokyo si ritrova presto sola, disperata e incriminata di un reato finché il Professore non compare a salvarla.
Fatte salve queste scene – l’entusiasmo per la scoperta del nuovo miracoloso scenario geopolitico, le trasformazioni urbane, gli spostamenti in treno finalmente liberi – già lungo il primo episodio (6 in totale, un’ora l’uno) la trama comincia a rendersi nota e prevedibile per chiunque abbia visto la serie originale.
Dunque perché vedere La Casa di Carta Corea?
Forse perché più asciutta? Una bella fotografia? Forse perché la lingua coreana ha quella fonetica peculiare e divertente che incuriosisce il nostro ascolto? Così come le maschere di Yangban dei nuovi protagonisti attirano la nostra attenzione? Ma per quanto tempo? Gli stessi attori coreani rendono liquida l’esperienza dell’empatia rispetto a quella vissuta con il cast latino, elemento cruciale in una trama plasmata dal melodramma. Naturalmente si tratta di caratteristiche antropologiche ma in una serie originale e insolita come Squid Game non ne avevamo certo sofferto. Anzi, l’empatia con i personaggi era totale fino allo shock e la differenza culturale è sempre un vero potere attrattivo. Ma qui non funziona.
Sei episodi da un’ora sono inoltre lunghi per una serie di cui conosciamo tutto. Kim Hong-sun aveva affermato, in diverse occasioni, di voler aderire il più possibile alla storia di Alex Pina, in sé completa e universale. Ma perché allora copiare, trasferendolo in altra società e cultura, un fenomeno iper esposto, simbolizzato e saturo di vita?
Per l’audience globale di Netflix una storia ispirata, liberamente tratta, non pedissequamente riprodotta, sarebbe stata più appealing, demandando questa versione K-Drama, certamente ben sceneggiata, del thriller sentimentale spagnolo a un palinsesto nazionale coreano.
Kim Hong-sun prosegue: «Ho amato la storia originale: presenta numerosi personaggi e ciascuno di loro è intrigante a modo proprio» avvalorando così la scelta di mantenersi fedele, ricalcando scene e caratteri: è il caso di Denver, interpretato da Kim Ji-hoon che emula Jaime Lorente López nella pièce attoriale, nei mimetismi della voce e nella dinamica del corpo. È uguale la scena in cui si sdraia sulle banconote sognando un futuro prosperoso.
A differenza dell’originale spagnola, manca certo romanticismo delle backstories, non si percepisce la genialità della mente, il Professore, che rimane poco profilato e troppo pacato per espandere carisma.
La trama si sviluppa lenta, senza i rapidi sommovimenti e i cul de sac ansiogeni della serie madre e non riesce a smarcarsi da una forma di autoreferenzialità che la costringe a stare nel “mondo dentro”.
Anche nella versione originale, le ambientazioni sono per lo più interne – le prime stagioni sono girate quasi tutte in studio – però è inevitabile respirare quel senso di libertà e apertura tipicamente spagnolo, che converge nell’inno Bella Ciao e nelle scene pubbliche trionfalistiche, di fandom liberatorio fuori dalla Banca.
Nella versione coreana, per quanto arrivi chiara la critica sociale, il legame con lo spazio pubblico e il mondo esterno è spesso assente. Anche i media, solitamente megafono emotivo di cronache, presunte verità, false piste e indagini, in La Casa de Papel Corea sono una presenza sporadica e laterale. I media generalisti li troviamo all’inizio – nell’introduzione storica che determina l’ucronia della serie – e verso la fine, quando alcuni passi falsi della polizia e della banda vengono ripresi e pubblicamente restituiti al popolo e alle famiglie, scese in piazza e sedutesi dinanzi a un maxi schermo, tra lacrime e stupore.
La Casa de Papel Corea si configura come un razionale tentativo, ben strutturato, di contaminatio con un’opera preesistente e un brand pervasivo, che regge bene il confronto in termini di identità culturale e sfumature sociali e politiche.
Tuttavia quella rottura che ci aspettiamo dal carnevalesco, come insegna Bachtin, ove le maschere ribaltano – nella finzione scenica – l’ordine costituito, qui non si avverte. Seppur la maschera Hahoetal faccia assaporare l’intensità satirica del raggiro del potere, della ribellione al sistema, La Casa de Papel Corea non affonda e non squarcia l’immaginario come avremmo desiderato nelle nostre alte aspettative.
Quindi, se anche la osservassimo da un punto di vista puramente di marketing, un’operazione di storytelling transmediale che poteva sfondare è rimasta fragile su una superficie tiepida. Trascurabile.