ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattersi in spoiler su La chimica della morte.
Il catalogo delle serie originali Paramount+ si è arricchito in questi giorni di una nuova prima stagione, composta da sei puntate: La chimica della morte (The Chemistry of Death, il titolo originale).
Tratto da due libri, La chimica della morte e Scritto nelle ossa, di Simon Beckett, giornalista e romanziere inglese, l’adattamento televisivo è curato da Sukey Fisher ed è diretto da Richard Clark, già conosciuto per War of the Worlds e Versailles.
Se c’è una cosa che le serie inglesi ci hanno fatto capire è che la loro campagna è decisamente meno sicura della città poiché le probabilità di morire per morte violenta sono incredibilmente elevate (L’ispettore Barnaby insegna). Così, fin dalle prime scene, immersi in un silenzioso bosco mentre seguiamo due fratelli camminare nella fitta vegetazione, capiamo subito che non sarà… una passeggiata, appunto.
Il cadavere di una donna, nudo, sgozzato e in stato di decomposizione, giace contornato da un paio di angeliche ali fatte con piume bianche, sporcate dal terreno e dal sangue. Una scena piuttosto raccapricciante che ci porta a pensare subito a un serial killer.
Sul luogo è chiamato a indagare l’ispettore Mackanzie, interpretato da Samuel Anderson (Another Life e Red Rose) che però non è il vero protagonista della serie. Questo ruolo, infatti, tocca a Harry Treadaway (già visto nel ruolo del dottor Frankenstein in Penny Dreadful e anche in Mr. Mercedes, Star Trek: Picard e The Crown) qui nei panni del dottore di campagna David Hunter. L’ispettore non si rivolge al dottore semplicemente per redigere un normale atto di morte ma perché spera che si levi i panni di medico condotto e riprenda i suoi, quelli veri, di antropologo forense.
David, inizialmente, rifiuta. Non lo fa per supponenza o per menefreghismo ma per cercare di salvaguardare se stesso da un terribile dolore sconosciuto allo spettatore ma che piano piano, attraverso flashback ben posizionati, si scopre. Il sacro fuoco della verità, però, lo obbliga ad avvicinare il cadavere e cominciare la sua personale indagine alla scoperta del come e del perché la donna sia stata uccisa.
La serie è divisa in due parti distinte, slegate tra loro se non per la presenza dell’antropologo forense che funge da trait d’union. Nella prima parte, quella ambientata in campagna, David deve indagare su un serial killer; nella seconda, invece, il medico viene inviato in una sperduta isola al largo della Scozia per indagare sul ritrovamento di un cadavere carbonizzato in un cottage abbandonato nella brughiera.
Il passaggio da un’indagine all’altra è piuttosto sorprendente, purtroppo non in maniera positiva. Lo stacco è netto e piuttosto difficile da digerire. Poiché la serie viene pubblicizzata come “basata sul romanzo La chimica della morte“, lo spettatore si aspetta che della prima indagine ci sia una sorta di prosecuzione, di rimando, nella seconda parte. La prima indagine, infatti, si conclude in maniera piuttosto rocambolesca sebbene l’assassino sia facilmente identificabile non appena lo si vede comparire sullo schermo. Sembra quasi che David inciampi, per puro caso, in chi commette i delitti. Le sue indagini, infatti, risultano insignificanti nonostante la voce fuori campo illustri allo spettatore come funzioni la scienza forense.
La seconda indagine, invece, appare più interessante perché meglio diluita nel tempo. Nella seconda parte della serie l’antropologo forense ha la possibilità di portare avanti la sua inchiesta con metodo sebbene tanti, in torno a lui, cerchino di mettergli i bastoni tra le ruote.
David Hunter è protagonista di otto romanzi ma ciò che manca a queste sei puntate, sostanzialmente, è un Andrea Camilleri alla sceneggiatura capace di prendere i giusti ingredienti dagli scritti, mischiarli e farne un gioiellino alla Commissario Montalbano. Lo sappiamo bene: sono due mondi e due generi diametralmente opposti. Ma in La chimica della morte si sente mancare una base solida, un appoggio resistente sul quale poter costruire qualcosa di importante. Perché per il resto, la serie rispecchia perfettamente quelli che sono i meravigliosi, classici canoni del giallo all’inglese: un piccolo centro cittadino nel quale avvengono macabri ritrovamenti sui quali indaga un personaggio buono dall’animo tormentato. Senza dimenticare la lentezza, per nulla estenuante, della narrazione che si concentra su personaggi e dettagli utili a creare un grande, interessante, contorno spostando l’attenzione dal singolo caso.
Supportata da una meravigliosa e selvaggia ambientazione messa bene in risalto da una ottima fotografia che regala un senso di claustrofobia e paralisi, La chimica della morte, nonostante il suo colpo di scena finale, dà l’impressione di essere qualcosa di già visto. Nell’arco di un paio di puntate si perde quel quid iniziale che ha fatto palpitare lo spettatore all’inizio facendogli credere di esser di fronte a qualcosa di nuovo, fresco, entusiasmante. Invece, purtroppo, nonostante i ruoli di contorno siano davvero bene interpretati risultando realistici e, per certi versi, scomodi, le sei puntate si trascinano faticosamente in avanti quasi per inerzia. Come se fosse mancato il coraggio di fare qualcosa di più. Persino i colpi di scena, già di per sé rari, sono piuttosto scontati e l’unica cosa che regalano è un incupimento brutale e violento del quale, in tutta onestà, non si sente l’esigenza.
Precisiamo: non è un brutto prodotto ma è certamente lontano dall’essere un capolavoro. È, in sostanza, quel tipico prodotto estivo che semplicemente non spicca particolarmente per originalità ed è destinata a finire, in fretta, nel grosso calderone delle serie crime nonostante l’interpretazione Harry Treadaway. Ecco, a dispetto dello scontato dramma interiore che porterà il personaggio a offrirsi come vittima sacrificale per salvare una bambina che gli ricorda l’irreparabile, tragico passato dal quale vuole sfuggire, l’attore inglese è capace di tenere banco da solo e portare avanti le scene senza apparenti difficoltà regalando allo spettatore una interpretazione decisamente sopra la media. La viva sofferenza che traspare nei flashback diventa qualcosa di asciutto e incancrenito sul volto quotidiano del dottore ormai disincantato.
Si dice che i libri siano meglio della loro trasposizione, cinematografica o televisiva che sia. L’impressione è che sia così anche per La chimica della morte. Ciò che probabilmente l’avrebbe resa unica sarebbe stato, forse, puntare di più sull’aspetto investigativo dell’antropologia forense. Invece, resta tutto molto sospeso nonostante quelle poche scene specifiche davvero molto interessanti. Senza trasformarsi necessariamente uno spin off di CSI qualche curiosità in più su come funzioni il nostro corpo umano dopo la morte sarebbe stata certamente la marcia in aggiunta che avrebbe distinto lo show anglo-tedesco. Anche perché proprio in una di queste scene, con la voce fuori campo morbida e avvolgente di Harry Treadaway, ci viene raccontato che il corpo non muore e nemmeno si trasforma ma dà vita a una nuova esistenza fatta di larve e insetti. Una visione po’ macabra, un dramma per chi soffre di entomofobia (la paura degli insetti) ma di certo fuori dallo standard al quale le crime ci hanno abituato.