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Lo strangolatore di Boston – La Recensione del nuovo (poco) memorabile film su Disney+

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Boston, 1962. Nell’atmosfera lugubre della fredda e solitaria notte, il male comincia a insinuarsi tra le case di ignare donne, sconosciute tra loro nella vita ma sorelle nella morte, avvenuta per mano di uno stesso killer fantasma che terrorizza la città. A collegare i destini delle vittime non è però l’indesiderata visita di quello che sarà poi definito lo strangolatore di Boston, ma l’acume della giovane giornalista Loretta McLaughlin (Keira Knightley) protagonista del nuovo film scritto e diretto da Matt Ruskin e prodotto da Ridley Scott, disponibile dal 17 marzo su Disney+

Tratto dalla storia vera del serial killer che tra il 1962 e il 1964 tolse la vita a 13 donne, Lo strangolatore di Boston si differenzia dall’omonimo film del 1968 ponendo l’attenzione unicamente sulla giornalista del Record American Loretta McLaughlin, che per prima colse la connessione tra gli spietati omicidi. La ricerca della verità è però ostacolata dal maschilismo predominante dell’epoca, in particolar modo nel mondo lavorativo. Le donne del Record American erano infatti destinate al reparto redazione moda e costume, essendo la cronaca riservata unicamente agli uomini. Loretta deve quindi faticare il doppio dei suoi colleghi per ottenere il suo trafiletto in prima pagina sul misterioso killer di Boston, nonostante l’esclusività e l’indubbia qualità della notizia. Non bisogna tuttavia lasciarsi ingannare dalle premesse: la costruzione della pellicola di Ruskin non lascia spazio ad alcun facile buonismo nella rappresentazione della lotta femminista. Loretta osserva la realtà e la racconta aiutata da un’altra donna, la giornalista Jean Cole (Carrie Coon) che, come lei, è riuscita a farsi largo nel mondo del giornalismo unicamente grazie alle sue straordinarie doti e alla volontà di dar voce alla verità. La verità è infatti la vera protagonista delle loro vite più che la fatica per arrivare a raggiungerla, a differenza di quanto si vede generalmente in film storici con protagoniste femminili. Se quest’aspetto rende Lo strangolatore di Boston un film unico nel suo genere, allo stesso tempo priva la narrazione di intensità emotiva, limitandosi a mostrare gli eventi in modo fin troppo distaccato. Che le donne dovessero sgomitare il triplo per ottenere la metà dei risultati degli uomini rimane infatti un argomento sfiorato appena in superficie. Di fatto la protagonista riesce nell’intento di finire in prima pagina entro i primi 20 minuti del film.

L’assoluta mancanza di picchi emotivi è inoltre enfatizzata da un elemento non di poco conto per un film true crime: la mancanza del serial killer.

Lo strangolatore di Boston
Lo strangolatore di Boston (640×360)

Si è spesso discusso sulla moralità della romanticizzazione dei serial killer, caratteristica dei generi crime e true crime. Tuttavia, scegliere di non dar risalto in alcun modo alla figura dello strangolatore di Boston preferendo esclusivamente il punto di vista (fattuale, non emotivo) di Loretta svuota completamente il film di tensione e profondità. Lo spettatore non vede infatti mai il responsabile dei delitti, né il momento in cui questi avvengono, né tanto meno chi siano le vittime; in questo modo, oltre a mancare l’empatia con le povere donne, vengono meno anche la paura del killer e l’odio nei suoi confronti, fondamentali nelle produzioni del genere. Conoscere o meno l’identità del temibile strangolatore diviene con il passare delle ore praticamente irrilevante poiché, chiunque egli si rivelerà essere, si tratterà solo di un nome rimasto fino a quel momento sconosciuto al telespettatore. Nonostante la distribuzione sulla piattaforma streaming Disney Plus, il film finisce quasi col sembrare elitario, destinato esclusivamente a chi era già a conoscenza degli eventi piuttosto che alla grande utenza, che rischia di trovarsi di fronte a un prodotto dall’impeccabile qualità tecnica ma così privo di impianto sentimentale da risultare freddo e facilmente dimenticabile.

Lo strangolatore di Boston non è fino in fondo un true crime tanto quanto non può essere considerato un biopic sulla straordinaria giornalista, della cui vita sappiamo veramente poco.

La determinazione della donna (perfettamente rappresentata dalla sempre raffinatissima Keira Knightley) la porta poi a scontrarsi con la polizia di Boston, la cui inadeguata comunicazione con gli altri dipartimenti di polizia ha ostacolato e rallentato non poco le indagini. Anche in quest’aspetto di denuncia sociale il film risulta però poco incisivo; il giornalismo di inchiesta della donna contro le forze dell’ordine trova spazio solo nel finale della vicenda e in modo approssimativo. Basti pensare alla recente serie tv Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, in cui le responsabilità che l’amministrazione politica e la polizia locale hanno avuto sulla vicenda sono state rese così esplicite nel corso della narrazione da incappare nel rischio opposto di sembrare voler giustificare in qualche modo le azioni dello spietato killer di Milwaukee, addossando le colpe unicamente ai dipartimenti di giustizia. Nel caso invece de Lo strangolatore di Boston, l’inadempienza della polizia rimane più un’ ipotesi che un dato di fatto, incontrando anche in questo caso la totale indifferenza del telespettatore, troppo distaccato per l’assenza di empatia con le vittime per provare indignazione.

Secondo la protagonista, l’errore più grande commesso dalla polizia sarebbe stato quello di attribuire a un unico uomo tutti i crimini, anche quando questi si sono dimostrati diversi nel modus operandi; il film si pone quindi (apparentemente) l’inedito obiettivo di dare una risposta alle incongruenze nella storia dell’uomo ritenuto essere lo strangolatore di Boston. Nell’effettivo però quest’ipotesi non può che restare un’ipotesi, non dimostrata (né dimostrabile) neanche dal film stesso, che sembra offrirla allo spettatore più come metafora del male che non ha un solo volto ma è in ogni uomo che odia le donne, che per dare una reale risposta al caso di cronaca nera che ha scosso la comunità di Boston negli anni Sessanta.

Lo strangolatore di Boston, pur offrendo quindi numerosi spunti di riflessione, non ne approfondisce sufficientemente nessuno, limitandosi a essere un prodotto ben confezionato ma poco memorabile. L’unico merito della pellicola di Matt Ruskin è aver portato finalmente alla luce la vicenda dell’ambiziosa donna e giornalista Loretta McLaughlin; la sua più grande pecca però è di aver reso ordinaria la sua impresa straordinaria.