ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Maestro.
A oltre trent’anni dalla scomparsa di Leonard Bernstein (1918-1990) e a pochi giorni dal Natale Netflix ci regala un’opera davvero interessante, che vale la pena di essere guardata. Scritto, diretto e interpretato da Bradley Cooper Maestro è un biopic dedicato alla vita di uno dei più grandi direttori d’orchestra del XX secolo, pianista eccellente e straordinario compositore di opere come West Side Story, Candide o la maestosa Mass del 1971.
Maestro, titolo onorifico che spetta soltanto ai direttori d’orchestra e ai compositori, in realtà parla molto marginalmente della vita artistica di Bernstein preferendo concentrarsi quasi esclusivamente su quella privata. Le due ore di pellicola, infatti, si focalizzano principalmente sulla relazione tra il direttore d’orchestra e Felicia Montealegre (1922-1978), sua moglie dal 1951 fino alla morte.
Il film si apre con una scena musicale. Al pianoforte l’ormai maturo direttore d’orchestra suona di fronte ad alcuni giornalisti venuti a intervistarlo. Il pezzo che le anziane dita di Bernstein suonano è il postludio di A Quiet Place del 1983. Le armonie dissonanti creano la tensione giusta, la melodia sale verso gli acuti. Mentre il suono rimane nell’aria Bernstein solleva la mano destra, si sfila gli occhiali e si pinza la radice del naso abbassando il capo. Sospira. E con voce strozzata dall’emozione confida: “viene sempre meglio al piano, non so perché“. Affida il suo dolore alla sigaretta e dopo una boccata l’uomo fissa i giornalisti. Accennando un sorriso mesto prosegue: “rispondendo alla sua domanda, sì, io la sento sempre accanto a me“. E dopo aver raccontato di vedere la moglie fare giardinaggio e ritrovarla accanto a sé per controllare se faccia in maniera corretta il bucato, conclude: “lei mi manca da morire“.
Dopodiché, lo spettatore viene trasportato nel passato. Per sottolineare questo passaggio viene adottata la scelta stilistica di utilizzare un ammaliante bianco e nero di una fotografia meravigliosa assegnata a Matthew Libatique (candidato a due Oscar per Il cigno nero e A Star Is Born, primo film diretto da Bradley Cooper).Come a voler ricostruire le atmosfere nostalgiche degli anni del secondo Dopoguerra le scene che si susseguono con la rapidità di un cambio di scena teatrale ci raccontano l’incontro e l’inizio della relazione tra il direttore d’orchestra e l’attrice. Tra i due sboccia subito un amore quasi trascendentale. La scena dove i due sono seduti, schiena contro schiena, alla ricerca di “una connessione” dice Felicia, è significativa perché descrive perfettamente l’essenza di un amore che sarebbe andato oltre tutto. Non sappiamo se sia un fatto realmente accaduto ma non ha importanza. Bradley Cooper sembra volerci raccontare come Lenny (così era chiamato il direttore d’orchestra dai suoi amici più intimi) e Felicia inizino un percorso di ricerca che li porterà, attraverso le mille burrasche della vita, molto, molto lontano.
Il ritmo vertiginoso della prima parte, quella in bianco e nero, è travolgente e davvero significativo. L’energia vorticosa, degna di un musical di Broadway, trascina lo spettatore nel tempo e nello spazio lasciandolo quasi senza fiato. I personaggi in secondo piano sfilano via come semplici comparse, ballerini di fila, come avvolti da una sorta di sfocato contorno. Così la mente dello spettatore per non perdersi nel bailamme è costretta a utilizzare i due protagonisti come una sorta di scoglio al quale aggrapparsi lasciando sfilare via tutto il superfluo. Come gli amanti di Bernstein, per esempio, che sembrano tutti uguali ma che in realtà non lo sono.
Sì, perché il celebre compositore era bisessuale e non ne faceva mistero. Ma anche su questo Bradley Cooper sembra non volersi soffermare preferendo dettagliare altro dando ragione a chi, oggi come ieri, sostiene giustamente che quello che accade nella camera da letto deve restare privato.
Dal bianco e nero si passa al colore. Anche in questo caso il lavoro di Matthew Libatique è davvero impressionante. Le scelte di luce regalano un cromatismo da vecchia pellicola, perfettamente in stile con l’epoca. E dal vortice si passa alla quiete. Come se, una volta raggiunto il successo, Bernstein potesse finalmente fermarsi e prendersi il tempo di godere dei frutti del suo lavoro. Le riprese sono più fisse, le distanze tra l’obiettivo e gli attori più allungate e il racconto si fa meno poetico e più introspettivo.
Ci sono lunghi momenti di silenzio rotti soltanto da sospiri e mugugni. L’idea probabilmente è quella di descrivere la maturità umana che comporta il confrontarsi con i propri demoni e i propri rimpianti. Significativa, in questo caso, è la scena dedicata al termine della Messa, quando Bernstein comunica alla famiglia di aver finalmente completato l’opera e la moglie si tuffa nella piscina, tutta vestita. Una scena che descrive molto bene la fatica di attornia il genio e ne viene immancabilmente travolto.
Del resto il personaggio centrale di Maestro è proprio Felicia, interpretata da una meravigliosa Carey Mulligan.
Quasi a voler ribadire l’obsoleto detto di Virginia Woolf, che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, Maestro ci ricorda quanto il sacrificio e la costanza siano obbligatori per far funzionare le cose. E di costanza e di sacrificio Felicia ne è Maestra finché umanamente riesce. Comunica attraverso i gesti quello che non riesce a comunicare a voce confermando che l’agire, spesso, è più efficace delle parole, obbligando il marito a sbattere contro la dura realtà.
Più che un film sulla musica Maestro è un film sull’amore e sul matrimonio. Un matrimonio fuori dai canoni che è riuscito a durare oltre la morte di lei. Un matrimonio capace di andare oltre le scappatelle del grande direttore, necessarie a soddisfare una sua indefessa immaturità emotiva. Potrebbe sembrare, il suo, un comportamento irrispettoso ma non è così. Lo si legge negli occhi dell’attore che guardano la moglie con immutabile, innocente amore Le carte in tavola sono chiare, fin dall’inizio, e a entrambi va bene così. Ma col tempo, con la maturazione e il fisiologico cambiamento, queste certezze cominciano a sgretolarsi, venendo meno. Le convinzioni lasciano spazio ai dubbi e il pettegolezzo incrina la fiducia. Il confronto tra padre e figlia, interpretata da Maya Hawke, è sintomatico di come il genitore debba nascondersi e mentire, su preghiera della moglie, quasi colpevolizzandosi di essere quello che è. Con grande, grandissima sofferenza.
Eppure, almeno a parole, qualche sacrificio va fatto. Quasi a pagare pegno per un successo arrivato per puro caso (la telefonata per la sostituzione di Bruno Walter, a inizio film) ma confermato, ai più alti livelli mondiali, grazie a un infaticabile studio e una costante dedizione alla musica.
Ecco, forse è proprio la musica che manca un po’. O meglio, avrebbe potuto avere un maggiore risalto trattandosi, il protagonista, di un compositore e direttore d’orchestra. Col rischio, però, di farne un semplice racconto cronologico dei fatti. Bradley Cooper, invece, opta per una selezione di musiche che si intonano perfettamente con il mood del film insistendo quasi cocciutamente sulla storia d’amore e lasciando alle melodie (nemmeno le più celebri, per dirla tutta) il compito di fare da sfondo senza mai prendere le parti di uno o dell’altra protagonista.
Per gli amanti della musica, in particolare quella classica, probabilmente questa scelta farà storcere il naso e, a fine film, lasciare un po’ l’amaro in bocca. Comprensibile: Bernstein, come direttore, era stato alla guida delle più importanti orchestre del mondo, aveva diretto i più grandi cantanti e i più grandi solisti. Paradossalmente, però, quella che viene raccontata sullo schermo è la vita di un uomo il cui destino è già indissolubilmente legato alla musica e non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Per questo, sembra dirci Bradley Cooper, si può sempre usare internet.
Maestro è indubbiamente un film molto interessante, che non annoia mai, capace di trasmettere anche fortissime emozioni. Un film che non scade mai nella retorica, nemmeno nella scena successiva il finale della celebre Seconda di Mahler (fate attenzione alla commozione del primo violino inquadrato quando ancora l’aria è pregna della musica, è qualcosa di davvero geniale!), quando abbraccia nuovamente la moglie dopo un periodo di separazione. Nemmeno nella bellissima scena successiva la morte di Felicia, quando si vede l’auto con la famiglia a bordo ma con il posto accanto al guidatore vuoto.
Bradley Cooper è incredibile per come somigli a Bernstein, soprattutto da anziano, ma la sua bravura va oltre il personaggio interpretato. Il regista dà alla storia d’amore nuova linfa vitale attraverso una personale chiave di lettura. Il Bernstein giù dal podio non è quella divinità che in molti sono portati a credere sia anche grazie a una comunicazione non verbale trascinante (se riuscite guardatevi il video su Youtube di Bernstein che dirige solo con lo sguardo o quello della scala di Do maggiore). Semmai è un uomo affamato di vita la cui quotidianità sembra non esser sufficiente.
Se proprio vogliamo trovare il pelo nell’uovo potremmo dire che nel film vengono accennate tante, troppe cose che sarebbero state davvero interessanti approfondire. Il rapporto con il padre, con gli altri colleghi musicisti, quello con l’orchestra e con la musica, il rapporto con i figli e con gli amanti, i problemi di depressione, eccetera, sono solo alcuni dei temi che vengono accennati e che avrebbero meriato, davvero, di un essere sviscerati. Ma il film sarebbe durato un’eternità e soprattutto avrebbe perso il focus sul quale si è voluto concentrare.
In un mondo fatto di scelte artistiche Bradley Cooper ha fatto la sua e ci ha regalato un film che potrebbe anche vincere qualche premio importante. Ma che non ha bisogno di una statuetta, per citare quello più famoso, per esser riconosciuto come una grande espressione dell’arte cinematografica.