Francesco e Totti, il ragazzino e il fuoriclasse, il timidone e il Capitano, il cocco de’ mamma e il campione del mondo. Alex Infascelli si è tuffato nella sfida impossibile di raccontare tutto insieme, il tutto di un personaggio tanto amato ma pure tanto criticato. Reduce da un altro documentario che gli è valso il David di Donatello nel 2016 – S Is for Stanley – Trent’anni dietro al volante per Stanley Kubrick -, il regista romano ha azzardato una prova che era difficile da superare: raccontare un idolo del calcio in un Paese in cui di calcio ci si ciba, ci si alimenta, ci si vive con una passione in certi casi totalizzante. Il binomio sport-cinema/sport-televisione non sempre funziona, ma Mi chiamo Francesco Totti è un po’ come il suo Capitano: rischia, osa, butta là un cucchiaio imprudente come nella semifinale di Euro2000. E poi, incredibilmente, segna.
Infascelli ritaglia le immagini, i vecchi filmini di famiglia, e le ricuce come toppe di un pantalone sdrucito e sbiadito. Si alternano le grandi giocate a momenti più intimi, privati. Le dirette di Sky a riprese sfocate fatte sui campetti in terra battuta della capitale, quando il calcio era ancora solo un gioco, un immenso spazio aperto nel quale disegnare i propri sogni. Si distinguono le voci dei genitori che urlano dagli spalti, i commenti non proprio gentili di amici e parenti, qualche risatina di sottofondo, il vociare scomposto di un campo di ragazzini qualsiasi nel bel mezzo degli anni Ottanta.
Infascelli dirige, siede in panca e detta i tempi. Ma in campo ci va lui, ci va Francesco Totti. Ancora una volta.
Il Capitano giallorosso racconta e si racconta, con quella sua parlata un po’ biascicata, le parole che gli vengono meglio in romanesco, quell’imbarazzo percepibile davanti a certe immagini, come quel “Scusa, ‘o sai come so’ fatto” sussurrato a Vito Scala come fosse in un confessionale, come parlasse solo a se stesso e non a un pubblico di milioni di persone. Perché poi Totti è così, tratta la moltitudine come fosse uno, le centomila voci di Antonello Venditti come un unico grande coro, quello che racconta il suo amore e la sua passione.
Mi chiamo Francesco Totti è un po’ un documentario, un po’ un autoritratto.
È il racconto di una favola che non c’è più, ma che è destinata comunque a rimanere eterna. È la favola che tutti raccontiamo e ci raccontiamo, quella in cui tutti vorremmo sempre credere: c’era una volta un bambino timido che aveva un sogno, l’ha tenuto stretto in mano, ci ha creduto fino in fondo e poi l’ha realizzato.
Così scorrono sullo schermo tutte le immagini della favola, dalle prime partite con la Primavera alla convocazione in prima squadra. Il primo gol al Foggia: traversone al centro, sponda di testa di Fonseca e cannonata di prima col sinistro. I dissapori con il tecnico Carlos Bianchi, quel triangolare Roma-Ajax-Borussia Moenchengladbach che ha cambiato per sempre la sua storia e quella della Roma. Poi ancora gli anni con Zeman, la fascia da Capitano, lo scudetto alla Lazio, l’addio di Giannini.
Fino a quell’incredibile stagione 2000/2001 nella quale arrivarono Batistuta e Capello e la Roma conquistò la vetta della classifica.
Sembra una stagione fatta apposta per essere raccontata, con l’incognita della vittoria fino all’ultima giornata, una città deserta e silenziosa che aspetta da diciotto anni, i tre gol al Parma, l’invasione di campo a cinque minuti dalla fine che rischia di invalidare il titolo. E poi la festa, i colori, la gioia delle persone che ti spogliano, ti abbracciano, che vogliono portarsi a casa un pezzo di te come ricordo di una giornata straordinaria. “Vincere uno scudetto alla Roma è come vincerne dieci da un’altra parte”.
E ancora gli alti e bassi di una squadra che alternava momenti bellissimi a stagioni fallimentari. La rabbia dei tifosi, le contestazioni, il romanismo che non lo contieni e che ti esplode addosso. I dubbi di un calciatore corteggiato dal club più forte del mondo e anche quel suo lato un po’ meno garbato, zoticone, che pure esiste: i cartellini rossi, il calcio a Balotelli, lo sputo a Poulsen. “Poi me vergogno…”.
In Mi chiamo Francesco Totti ci sono tutte le luci e le ombre di un campione che si racconta senza censure, che non nasconde i comportamenti sbagliati, le scorrettezze in mezzo al campo, le imperfezioni che riconosce come sue e per questo non ha paura a tirarle fuori.
Ci sono i derby, gli sfottò, l’incontro con Ilary e il matrimonio, la nascita dei figli e l’infortunio. Poi il recupero, il Mondiale, quel rigore al novantesimo con l’Australia che ci è valso la qualificazione ai quarti di finale. A tratti sembra di sentire una strofa di Renato Zero, di una canzone che non a caso si chiama Favola mia: “Tutto quello che c’è fuori rimane dov’è. Tu sorridi, tu piangi, tu canti con me. Forse torni bambino e una lacrima va sopra a questo costume che a pelle mi sta”.
E se la prima ora e mezza è, tutto sommato, un racconto bellissimo ma ordinario – dove si ripercorrono anche episodi più recenti come i dissapori con Spalletti, il minutaggio via via più ridotto, gli ultimi colpi di genio, le partite ribaltate in poco più di cento secondi -, è negli ultimi venti minuti che Infascelli ci fa piangere. O, come si dice a Roma, ce fa piagne.
Totti – il Capitano, la leggenda, che tra non molto avrà anche la sua serie tv – aspetta in uno stadio Olimpico vuoto e buio. E sulle note di Anima Christi, il regista ci fa sentire il respiro di una città che aspetta in religioso silenzio il ritiro del suo idolo. Il rallenty ci porta per le strade di una Roma che esorcizza il momento del distacco, che si prepara all’uscita di scena. E anche i parenti, gli amici, Vito Scala, i genitori, sono lì che aspettano la fine di una carriera, il tramonto di una leggenda.
Sto tempo è passato. Pure per voi però.
La vita finisce dove comincia, diceva Pasolini. Fine e inizio coincidono e Infascelli sembra volerci suggerire proprio questa riflessione negli ultimi minuti del suo Mio chiamo Francesco Totti. Che poi è anche il nostro Mi chiamo Francesco Totti, perché ci sta dentro non solo la sua favola, ma pure la nostra.
Quando c’ho tutto sui piedi, difficilmente sbaglio.