Midnight Diner: Tokyo Stories è una serie sconosciuta ai più. Eppure in Giappone ha ottenuto un successo virale e recensioni entusiaste. E non a torto.
La difficoltà di imporsi anche in Occidente è certo dovuta al profondo divario che separa due modi di intendere la vita (e l’arte) profondamente diversi e che la globalizzazione non è riuscita ancora a intaccare. Nonostante il dilagare di orientalismi, infatti, poco si conosce realmente della mentalità di un popolo, quello giapponese, genericamente ammirato ma poco indagato nelle sue consuetudini e modi d’essere.
Inevitabilmente il riflesso che ci giunge è quello europeizzato e commercializzato. Banalizzato e riadattato a nostro uso e consumo.
Come messo in luce da E. Said nel suo celebre saggio “Orientalismo”, il nostro approccio alle altre culture parte da una rappresentazione (Récit l’avrebbe definita J. Lyotard) per sottrazione: ciò che non siamo noi, ma che intimamente desideriamo – anche – essere, lo riversiamo nell’altro. Così nasce l’Oriente misterioso ed esotico, richiamo ancestrale del nostro desiderio d’avventura.
Proviamo allora a svincolarci da questa logica. Lasciamo per un momento da parte i nostri ristoranti giapponesi, la meditazione zen, le arti marziali e i nudolini orientali. Apriamo Netflix, scriviamo Midnight Diner: Tokyo Stories. Facciamolo senza preconcetti, senza aspettative e dimenticandoci tutto quello che abbiamo più o meno involontariamente imparato sul Giappone.
Si schiude il sipario: le luci, i grattacieli, le strade intasate, i manifesti pubblicitari, la massa indistinta e spersonalizzante della folla che termina la giornata lavorativa. Il tutto accompagnato da un musica dolce e nostalgica (che trovate a questo link):
“Nebbiosi, candidi respiri tu esali lentamente soffiati dal vento. Che ormai tra le nuvole del cielo, lentamente, vanno scomparendo.
Dall’alto del cielo nuvole bianche scendono a condensare i tuoi respiri. E continuano a volare lontano.
Sembrano proprio come le nuvole di un passato lontano che scorrono su di un fiume gorgheggiante.
Per evitare il riflesso del sole, dei cani dormono sotto le grondaie. E così i ricordi nel profondo del cielo.
Dall’altro lato del cielo, uno spazio ancor più blu. Nel vuoto del cielo, nuvole alla deriva.”
Fin d’ora emerge lo stridore tra un Giappone che si affanna dietro l’ossessione del successo e la delicatezza di una melodia che invita alla calma riflessiva. Significativo da questo punto di vista che in Giappone esista un termine, karōshi, che indica la morte per eccesso di lavoro.
I titoli di testa scorrono emblematicamente sulle macchine in coda, come a stabilire un’irreale collegamento col tema del racconto. Ma subito all’immagine della tentacolare Tokyo moderna si sostituisce un’istantanea inaspettata: siamo nei vicoli bui e decadenti di una città antica. Una città silenziosa e stanca. Al freddo metallo degli svettanti grattacieli si sostituisce il legno umile dei locali serali.
Siamo negli kakurenbo-yokocho, le viuzze-nascondino. All’angusto balcone di una casa compressa tra mille altre fuma tranquillo un uomo di mezza età. Scruta silenzioso le poche persone che camminano lungo la via sottostante.
“La mia tavola calda è aperta da mezzanotte alle sette di mattina. La chiamano: la tavola calda di mezzanotte”.
Sul menu sono pochi, semplici piatti: zuppa di miso con maiale, birra, sakè, shōchū. Ma lo chef – che tutti rispettosamente chiamano Master – ci informa che è disponibile a preparare qualunque piatto purché gli vengano forniti gli ingredienti.
All’ingresso del locale è una semplice scritta: “Meshiya”, tavola calda. La luce di una lampada segnala l’apertura. Questa è la cornice all’interno della quale si sviluppa Midnight Diner: Tokyo Stories.
In questo ideale rifugio dal mondo, raccolto e caloroso, si succedono i più vari personaggi: da un radiocronista a un giocatore d’azzardo, da un cabarettista in declino a un attore porno. Il cibo fa da legante a tutte queste storie, scorre all’interno di esse, ne è parte integrante. Attraverso i piatti cucinati dal Master le persone si incontrano e si ritrovano. Si scoprono unite ma sempre diverse. Ritornano con la mente ai ricordi del passato, agli odori dell’infanzia e condividono quei ricordi con lo chef e i compagni di una notte, trasfondendoli in memoria collettiva.
Tutto con la dolcezza di poche parole, la sagacia di una battuta, la sentenziosità di un motto. In questo spazio atemporale escluso dalla smania della vita si condensa il bisogno di riflessione, di accoglienza, di ascolto.
Nessuna delle storie presentate negli episodi sembra realmente costruita. Tutto appare incredibilmente naturale e non sempre si conclude con un finale univoco. A volte, come nella vita, il finale non c’è. Tutto rimane sospeso, la storia si interrompe. Quel che poteva essere non è. Eppure sempre, in ogni episodio, si legge un’autenticità concreta nello sguardo all’uomo. E non è cosa da poco. L’occhio silenzioso della telecamera si ferma in un’unica inquadratura, scruta rispettoso quella vita così varia e originale fatta di piccoli drammi quotidiani e saltuarie gioie.
È lo stesso occhio che ha Master, un magnetico Kaoru Kobayashi, sempre attento a quelle vicende e nello stesso tempo religiosamente distaccato.
Al momento opportuno non manca di fornire il suo breve, criptico parere. Offre l’orecchio a chi ha bisogno d’ascolto e non forza mai la situazione. Contempla pacatamente quel suo angolo di vita.
Nel secolo scorso, in risposta al tentativo occidentale di dare un’unitarietà fittizia a quel crogiolo di culture e tradizioni che è il Giappone sorsero le nihonjinron. Teorie identitarie che mirano a modellare univocamente la società e il sapere nipponico attorno a nuclei cardine.
Midnight Diner di contro ci mette di fronte al micro-mondo incoerente e sfilacciato di svariati brandelli di culture, sovrapposti, intrecciati, stratificati nel tempo. E lo fa con freschezza e realismo. Con spontaneità e originalità.
Non ci riconduce a Grandi Narrazioni ma ci fa abbracciare le contraddizioni di una società in profondo e continuo mutamento. Non adotta una trama orizzontale, lineare e progressiva. Tutto è conchiuso in pochi attimi, nella quotidianità di un sorriso. Nella sentenziosità di una frase. Nello sfrigolio di un’omelette di riso fritto. Non c’è né il bisogno, né la volontà di restituire un’immagine onnicomprensiva del Giappone. Né tantomeno il proposito di mettere in scena una storia carica di pathos, amori e avventure. Niente di tutto questo.
C’è lo scorcio di un modo di stare al mondo che cambia da personaggio a personaggio e che risente di una miriade di stimoli diversi. Dallo Spiritualismo e dal Buddhismo fino all’americanizzazione e alla pornografia su xilografia (che in Giappone ha tradizione antichissima risalente al periodo Edo).
Ogni aspetto di vita vissuta è messo in scena senza forzature e senza spiegazioni. Per l’occhio poco formato a una realtà come quella nipponica è certo traumatico il confronto.
Ma, man mano, accompagnati dall’essenziale bontà di piatti approntati con sapiente mano dal Master ci caliamo in una realtà nuova e dannatamente affascinante. In compagnia di quei pochi personaggi ricorrenti finiamo per sederci anche noi al bancone e silenziosamente, con un bel tonteki nel piatto, attendiamo curiosi la storia del giorno.
È questo il grande e finale merito di Midnight Diner: Tokyo Stories. Lasciare che le storie si raccontino da sé, che i personaggi si costruiscano nella quotidiana normalità di un amore non corrisposto, di un fratello ritrovato, di una madre perduta.
Quell’umanità in cerca di una dimensione vivibile si ferma nella tavola calda di mezzanotte e ritrova lì quello spicchio di esistenza vera che la pesante giornata lavorativa gli ha tolto.
Anche noi, tornati nelle nostre case e riposti i vestiti, fermiamoci un attimo. Rimaniamo solo un secondo in ascolto. Chiudiamo gli occhi. Forse sentiremo i rumori non troppo lontani dei sughi che borbottano in cucina. I giochi vivaci di fratelli e sorelle. I racconti delle piccole difficoltà di tutti i giorni.
Riapriamo gli occhi, andiamo a rilassarci un po’. Scegliamo Midnight Diner: Tokyo Stories. Perché in fondo non c’è niente di più autentico e vivo della quotidianità. Meglio ancora se trasfusa in quella cultura, pardon, in quell’amalgama di affascinanti culture – antiche e moderne – che è il Giappone.