Ordinare per tassonomia la psiche criminale. Creare un nuovo filone scientifico. Mercificare il processo, affinchè lo si renda comprensibile a chiunque. Questi sono i diktat del viaggio senza meta di Mindhunter. Senza meta poiché tutte le destinazioni, le mille sfumature d’America che incontriamo tappa dopo tappa, non sono altro che passaggi obbligati in vista di qualcosa di più grande: rivoluzionare il modo di concepire i crimini più efferati.
In virtù di ciò, Holden Ford, Bill Tench e Wendy Carr devono necessariamente confrontarsi con i più brutali e – apparentemente – irrazionali assassini del tempo. E sentire parlare Ed Kemper provoca un fascino irresistibile non soltanto sui tre ricercatori ma anche su noi spettatori. D’altra parte è alla base della teoria della sublimazione freudiana la concezione secondo cui gli impulsi primordiali dell’uomo siano manovrati esclusivamente da violenza e sessualità
La violenza sublimata, nella fattispecie, si manifesta, in maniera sana, attraverso mestieri quali il chirurgo, in maniera deviante con il crimine.
È questo il semplice ma efficace innesco attraverso cui Mindhunter ha conquistato praticamente tutti. Ma non il solo.
Non deve infatti fuorviare la svolta maggiormente procedural adottata dagli episodi 5 e 6. Questi, ancor più dei precedenti, colgono l’intento di Mindhunter e ne ridefiniscono l’essenza. È indubbio che l’episodio verta, sostanzialmente, su un solo caso di omicidio e lo è altrettanto il fatto che non assistiamo ad alcun dialogo con l’Ed Kemper di turno. Eppure, in corrispondenza del giro di boa, abbiamo uno snodo fondamentale per i fatti narrati nella Serie. Ma procediamo con ordine.
L’omicidio di Beverly Jean pone i protagonisti dinanzi a due possibili sospetti. Entrambi corrispondono a due potenziali identikit del “sequencial killer” che, come accennavamo nella recensione precedente, altro non è che la definizione provvisoria di quelli che verranno chiamati serial killer. Da un lato abbiamo l’imbranato e incapace a socializzare Benjamin Barnwright, dall’altro il violento Frank Janderman.
Due psicopatici agli antipodi, seppur con le stesse possibilità di aver stuprato, ucciso e seviziato post mortem la ragazza di Barnwright. Sul primo pesa l’enorme complesso di inferiorità e la sua marcata inadeguatezza sessuale; per quanto riguarda il secondo (non) gioca a suo favore la recidività, avendo già ferito gravemente una donna prima di imparentarsi con l’altro sospettato (i due sono infatti cognati).
La risoluzione del caso, tutto sommato, è abbastanza semplice: entrambi, più la sorella di Benjamin, hanno partecipato all’omicidio di Beverly Jean, con colpe equamente distribuite; sia Benjamin che Frank hanno fatto leva sui propri tratti devianti, quelli a cui si faceva riferimento tre righe più su. Il problema, per Holden, Bill e Wendy è democratizzare le loro ricerche. In altre parole, renderle comprensibili a chi ha il potere di condannarli.
A che serve il nostro lavoro se non riusciamo a spiegarlo a chi conta?
A subire la pena di morte è il solo Benjamin, meno difendibile a causa della sua natura e del suo status sociale. Il coinvolgimento dei coniugi Janderman viene considerato soltanto indiziario e i due riescono a cavarsela con un patteggiamento. In sostanza, a fare la differenza, è l’impostazione arcaica con la quale vengono identificati i criminali (Benjamin è un asociale, i Janderman sono neogenitori) nelle sedi opportune.
Per quanti progressi abbiano compiuto Ford, Tench e la Carr fino a questo momento, il caso di Altoona testimonia che la strada da percorrere resta lunga e tortuosa. Finchè un giudice o una giuria non saranno in grado di maneggiare adeguatamente il materiale della loro ricerca, tutto resta vago e aleatorio. Occorre dunque fare un passo indietro, per poterne fare due in avanti.
È questa la grande lezione appresa dai tre nel corso degli episodi 1×05 e 1×06. Dovranno, pertanto, essere battute altre strade, parallelamente alla ricerca qualitativa che stanno intraprendendo nelle prigioni d’America, tra i criminali più interessanti del tempo. Chissà che una delle soluzioni non possa essere quel libro tanto decantato al primo incontro con la Carr e che renderebbe il più intuitivo possibile le loro conclusioni.
Di certo, le conseguenze del caso di Altoona si ripercuotono in maniera netta sulla vita privata dei tre protagonisti.
Queste due puntate permettono di approfondire la figura di Wendy, divisa tra la legittima ambizione di lasciare la sua impronta sulla ricerca e la relazione con la sua compagna. Sarà proprio l’esito del caso di Beverly Jean a convincerla a fare una scelta tra vita personale e professionale che, ce ne rendiamo conto soltanto nel momento in cui ci vengono sbattute in faccia, per lei sono diventate sempre più inconciliabili. L’importanza della ricerca ha, per lei, la precedenza e può finalmente tuffarvisi a tempo pieno.
Allo stesso modo l’indagine rappresenta un passaggio chiave per Holden. Apparso fin dal primo momento poco carismatico – in realtà il personaggio di Groff riveste volutamente un’immagine anti-eroica, allo scopo di rendere credibile la curiosità quasi infantile con cui approccia alla ricerca – egli sta acquisendo sempre più sicurezza in sè stesso in ambito lavorativo. A scapito dei rapporti umani, in cui a tratti sembra proiettare gli atteggiamenti dei killer che sta studiando (spicca, in particolare, il complesso di inferiorità nei confronti di donne forti, sia Debbie che Wendy, da cui è attratto).
A fare da contraltare alle sicurezze di Holden, troviamo un Bill sempre più incapace di nascondere le proprie fragilità. Con graduale disinvoltura, Mindhunter ci ha mostrato i suoi segnali di crollo (nell’interrogatorio con Monte Rissell, ad esempio) sfociati nell’incidente del quarto episodio. Nella 1×06 – durata soltanto 34 minuti, eppure densa di avvenimenti – abbiamo finalmente contezza della natura dei suoi problemi familiari, tra un rapporto con la moglie logoro e un figlio, adottivo, incapace di interagire con loro.
Malgrado le loro differenze caratteriali i tre hanno acquisito in pochissimo tempo un’amalgama tale da bucare lo schermo. Di sicuro sono stati avvantaggiati dalla grande predisposizione ai dialoghi che la Serie offre e che contribuisce a caratterizzarli al meglio. A fare la differenza, tuttavia, è l’inevitabile empatia che noi spettatori siamo disposti a provare per loro, il che ci riporta alle tematiche devianti che ci attirano senza logica apparente.
In definitiva Mindhunter, come poche altre Serie, ci offre una finestra sulla nostra coscienza e sulle nostre pulsioni più recondite, e questo, volente o nolente, ce la fa amare da impazzire.