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Mindhunter: il finale segna la deriva professionale di Holden

Mindhunter
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Mindhunter si avvia al termine. Clicchiamo play e rimaniamo in religioso silenzio in attesa degli ultimi battiti di stagione. Fin qui abbiamo imparato ad apprezzare i tre protagonisti: le loro incertezze, l’affiatamento che li lega, la lenta costruzione di una metodologia di seriazione criminale. La loro indagine è diventata la nostra ricerca. In otto puntate David Fincher è stato capace di coinvolgere lo spettatore appassionandolo alle distorte quanto magnetiche menti criminali che ha presentato sulla scena. Ora, un po’ più consapevoli delle dinamiche del “gioco”, ci proiettiamo alle battute finali con la presunzione di poter carpire le motivazioni sottese agli efferati atti.

(S)oggetto di vivisezione nel nono episodio è Richard Speck, colpevole di aver torturato, stuprato e ucciso otto allieve infermiere a Chicago.

L’arrivo di Holden e Tench nel carcere è scandito dal senso di routine che si respira ormai in ogni loro gesto: il modulo di consenso è firmato in maniera sbrigativa. La telecamera indugia su questo distratto atto di Tench -seccato- sottolineandone l’automatismo sotteso. Si tratta ormai di una formalità. Questa breve scena è funzionale a rendere il senso di confidenza che i due protagonisti assoluti di Mindhunter hanno ormai maturato nella loro professione. La stessa sicurezza traspare nell’interrogatorio molto dialogato e informale condotto da Holden tutto proiettato, quest’ultimo, a mettere a proprio agio il suo interlocutore anche attraverso l’uso di termini scurrili.Mindhunter

Richard Speck ha rappresentato per il giovane agente dell’FBI il primo approccio al mondo criminale (“la prima cotta” come la definisce Tench). Per lui Holden ha quasi una venerazione, un’attrazione tutta particolare. Il parallelismo rapidissimo e ricercato tra questa fascinazione del protagonista e quella di numerose donne che inviano foto erotiche a Speck è puntuale e foriera di interrogativi. Cosa distingue Holden da quelle donne? E la devianza psichica di Speck può essere paragonata a quella delle sue ammiratrici?

David Fincher non manca mai di mettere costantemente in dubbio le nostre certezze. Ci induce a riflettere su ogni aspetto in modo smaliziato e critico.

L’esistenza di queste “serial killer groupies” è un fenomeno oggi ben conosciuto (Elaine Burton e Charles Manson per fare l’esempio più famoso). Tale perversione è nota come ibristofilia e le cause sono tra le più disparate: amore per la fama, proiezione della figura paterna violenta, disfunzioni nei rapporti familiari, e così via. Holden non prova nulla (proprio nulla?) di simile. Eppure, a suo modo, è invaghito di Speck.

Alla base c’è forse quella nostalgie de la boue che è attrazione per il degrado, per ciò che è basso, infimo. L’irrazionale e l’orrorifico, la devianza e l’atto efferato sono in tal modo sublimati, resi “accettabili” e trasformati anzi in oggetto di curiosa attrazione. Un metodo, questo, di difesa razionalizzante dell’Io cosciente contro una realtà altrimenti difficilmente tollerabile nella sua brutalità insensata (qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma). Ma in lui (e in noi) c’è anche una pulsione di morte, un perverso piacere per l’autoannientamento (l’attrazione mortale per il ritorno a uno stato pre-organico, pre-natale).

Holden ha, però, anche e soprattutto il bisogno di indagare e capire il diverso.

“Perché hai ucciso la prima?”, chiede curioso. “Perché piangeva e faceva rumore”. “Perché l’hai uccisa?”, incalza ancora il giovane “Perché lo volevo”. Holden sembra non poter accettare una risposta del genere. “Magari eri sconvolto?”, “No, ho solo deciso di ucciderle”. C’è qui da un lato un chiaro tentativo da parte del protagonista di indirizzare la risposta verso una soluzione chiara e, per certi versi, rassicurante: sapere che quell’atto così orrendo è stato compiuto a causa di uno stato alterato da alcolici e droghe sarebbe una giustificazione facile.

Dall’altro lato emerge invece con forza la più profonda genesi della strage: la volontà di farlo. Il potere e la possibilità di farlo. Quel desiderio di dominio (o volontà di affermazione) che Richard Speck fa suo. Lui, rifiutato dall’unione marittima più volte, allontanato perfino dal fratello (che lo aveva ospitato fino a poco tempo prima) sente di non avere il controllo della realtà. Quell’affermazione a danno delle ragazze è per lui ri-affermazione personale sul mondo che lo ha rifiutato (la stessa che opera a danno del povero uccellino così teneramente accudito).

Il tutto è compiuto in maniera inconsapevole. Come afferma Wendy: “Alcuni soggetti non hanno idea di cosa ci sia dietro i crimini che hanno commesso […] Lui non aveva idea di quello che avrebbe fatto. Ogni azione che ha commesso è stata… spontanea”. Speck è in sostanzia in balia delle sue pulsioni, delle quali non comprende le motivazioni (“Sai perché quelle fiche sono morte? Perché non era la loro serata”). Il caso rappresenta anche l’occasione per il team di giungere a una distinzione tra il concetto di “serial-killer” e quello di “assassino compulsivo”, indicando con il primo termine un killer che commette in maniera premeditata “una lunga serie di omicidi”.

Ma l’aspetto più interessante che troverà pieno sviluppo anche nel nono episodio è quello che riguarda il cambiamento che investe il protagonista, Holden Ford.

L’accusa che viene a muovergli la signora Wade sul finire dell’episodio è un monito sui pericoli che un giudizio affrettato può portare. Avevamo analizzato nel precedente episodio la vicenda del preside Wade: ora ne vediamo le drammatiche conseguenze. Holden in questo finale di stagione sente più che mai quella che nella precedente recensione abbiamo definito la “pesantezza di vivere il male”. Un malessere che si tramuta in indifferenza e cinismo.Mindhunter

Ma c’è dell’altro. Un’ulteriore trasformazione accompagna il nostro protagonista ed emerge chiaramente nel caso di Lisa Dawn Porter che fa da trait d’union tra il nono e il decimo episodio. Sicuro di sé e ormai impratichito con metodi poco ortodossi, Holden suscita una reazione emotiva nel killer. Il vestito da majorette (“Voglio che veda una bella fanciulla”) e soprattutto la pietra diventano il corrispettivo delle scarpe coi tacchi di Brudos (episodio 7): “Tutti abbiamo una pietra. Qualcosa che ci fa sudare”. Il vestito e la pietra diventano simboli di attrazione (rievocano la ragazza) ma anche di senso di colpa (l’omicidio non voluto). Il sudore come chiarisce Debbie, la ragazza di Holden, è una reazione quasi “pavloviana”, un riflesso condizionato che si associa al ricordo. Il killer diventa fragile e manipolabile.

In tutto ciò assistiamo anche a qualcosa che già nel caso Brudos, nel settimo episodio di Mindhunter, avevamo avuto modo di notare, ovvero la deriva metodologica di Holden, sempre più geniale e virtuosistico attore fuori dagli schemi. Il suo comportamento sopra le righe, le acute intuizioni abbandonano i soffocanti e grigi limiti del questionario elaborato da Wendy. Come un novello Freud, Holden spazia nella nuova disciplina con la libertà espressiva di un fantasista. Ma anche e soprattutto con l’arroganza di chi se ne reputa il fondatore.

In questo aspetto Mindhunter si presenta come l’erede incoerente di True Detective (Stagione 1).Mindhunter

Alla Serie di Nic Pizzolato si richiama anche il manifesto fotografico (copertina sulla pagina Fb ufficiale Mindhunter) in doppia esposizione, chiara citazione dell’immagine di Rust Cohle che appare nella sigla di TD. Holden è inizialmente l’antitesi del sicuro e cinico Cohle. Ammette candidamente di non sapere cosa ha di fronte nel primo episodio. Poi però inizia un progressivo percorso di autoaffermazione attraverso il quale la sua sicurezza degenera in sfrontatezza. Il crescente cinismo di fronte all’efferatezza dei delitti rappresenta l’inverso del cammino di Rust (che a fine Serie si troverà ad affermare: “Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo”).

A fare le spese di questa deriva caratteriale del protagonista non può che essere la stessa neonata disciplina, quella profilazione criminale, che sta muovendo i primi, ancora incerti passi. “Eri convinto della colpevolezza da prima di entrare. […] È un valido esperimento se lavori a ritroso da una conclusione?”. Con queste parole Debbie ci mette di fronte al problema del crescente autoreferenzialismo di Holden. Il limite della profilazione sta tutto in questo rischio di una sovra-categorizzazione aprioristica, basata cioè su un preconcetto (la colpevolezza del soggetto o i motivi del suo gesto) che può indurre lo “studioso” a forzare i dati a proprio favore, a non analizzare con oggettività scientifica il caso.

L’assenza di un metodo correttamente delineato e la presenza di un fondatore così borioso portano a inevitabili danni.

Infiniti i pericoli insiti nello stile poco allineato dell’interrogatorio, come pure nei giudizi affrettati (preside Wade) e nella troppa sicurezza nelle proprie intuizioni. È proprio la superbia di Holden a provocare le involontarie rivelazioni alla stampa e il tentativo di suicidio di Ed Kemper. Questi vedeva in lui un amico e confidente (“Siamo amici, Holden?”) e nelle parole pronunciate a mezzo stampa ha visto infrangere tale rassicurante immagine. Kemper si è scoperto sfruttato e manipolato. Cavia da vivisezionare e classificare tassonomicamente: “Credi di potermi condensare in un solo aggettivo?”.

David Fincher in questo episodio conclusivo di Mindhunter non manca di sottolineare come la profilazione seriale può essere sì, un valido strumento di definizione di un “profilo” criminale ma che in alcun modo a questa categorizzazione può venir meno l’analisi precipua sul singolo, inteso nella sua complessità, mutevolezza e unicità irripetibile. Nel suo aspetto umano.

La neonata disciplina dovrà allora rendersi protagonista di queste importanti prese di coscienza, acquisire un metodo e auto-imporsi un confine etico nel rispetto della persona.

E dovrà farlo anche a discapito del suo geniale ma ormai troppo presuntuoso creatore. Holden non è più l’ingenuo ma curioso ragazzo dei primi episodi (“Sono ancora curioso”, “No, sei diverso”, controbatte Debbie). Ha perso la scintilla negli occhi, la volontà di indagare e di mettersi in gioco. Si è arroccato nelle sue confortanti posizioni tronfiamente sicuro di quello che per lui è diventato un “credo” non più una “scienza”. Non ha più la forza di dire “Io non lo so”, come nel primo episodio.Mindhunter

Avremo un’intera seconda stagione per analizzare questo affascinante rapporto tra Holden e la sua amata creazione. Come pure per comprendere più a fondo quella che si prospetta un’interessantissima trama orizzontale in via di definizione: in questa prima stagione non è passata inosservata la presenza di un ricorrente personaggio, avulso dalla storia, nell’opening degli episodi. Nei crediti è indicato genericamente come ADT Serviceman.

Non sarà sfuggito il riferimento agli appassionati di criminologia: non può che trattarsi di Dennis Rader detto il BTK Killer, che lavorò appunto per la società ADT, specializzata in allarmi a uso commerciale. Anche il caratteristico baffetto e il modello di occhiali non lasciano dubbi: sarà lui il villain di quella che si profila come la stagione della piena maturazione di quel capolavoro in germe che è Mindhunter.

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