Era il 20 agosto del 1989 quando, una famiglia apparentemente fatta di legno massiccio, si svelò con il suo vetro frangibile. Con uno di quei vetri che, non appena li tocchi in modo incauto, si rompono in tanti piccoli frammenti. Tagliano. E fanno male. Era la famiglia Menendez. Da fuori, il perfetto riquadro di famiglia. L’essenza più ambiziosa del sogno americano. Con un patriarca che è riuscito a costruirsi da solo, dando ai figli e alla moglie le migliori scuole, case, possibilità. Immaginava Lyle ed Erik – i suoi figli – come i prossimi candidati in politica. Immaginava la sua famiglia diventare un’istituzione a tutti gli effetti. Voleva che fossero come i Kennedy. Una sera, però, questo sogno si frantuma, lasciando il paese e il ricordo di quella famiglia totalmente distrutti. Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez parte proprio da quel 20 agosto 1989.
Lo fa facendoci intendere varianti, situazioni disumane, rabbia. Ci porta in quella serata d’agosto in una perfetta Beverly Hills. Ma lo dice fin da subito: non è quella la notte in cui la famiglia Menendez è stata distrutta. Perché l’orrore, qualsiasi esso sia, è in realtà cominciato molto tempo prima.
Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez non è un’indagine. Non ricerca delle vittime. Sostiene lo stesso obiettivo della stagione dedicata a Dahmer, indagando all’interno di una realtà che – in qualsiasi declinazione – resta comunque una storia terribile.
Ryan Murphy e Ian Brennan ritornano qui con gli stessi propositi della prima stagione. Non assolvere. Non giudicare o ricercare spasmodicamente la verità. Esattamente come noi, i due si mettono dalla parte dei telespettatori. Ricompongono il puzzle di quel 1989 e dei successivi anni, cercando di raccontare una storia in cui sussistono ancora dubbi e incertezze. Interrogativi senza risposta. Il compito di fare luce su questa storia non è dunque di Murphy che, come nel caso di Dahmer, si limita a raccontare, lasciando al telespettatore il potere principale.
Dal divano di casa, veniamo presto trasportati all’interno di un’aula di tribunale in cui gli imputati sono accusati di parricidio. Come i membri della giuria, tutto ciò che sappiamo proviene dalle loro bocche. Dalla ricostruzione dei fatti. Una ricostruzione mostruosa che racconta una vita disgraziata, disperata, fatta di abusi fisici e psicologici che i due fratelli hanno dovuto subire fin dalla loro infanzia.
Lyle ed Erik Menendez non hanno dubbi: quel che hanno fatto è stato solo fregare i genitori sul tempismo. Madre e padre, secondo la loro ricostruzione, erano assolutamente convinti e decisi. Volevano farli fuori. Li vedevano come la rovina di una famiglia che ha sempre imbrogliato ma senza farsi mai beccare, trovando il modo di unire gloria e vittoria, almeno fuori dalle mura di casa. Nella ricostruzione di Lyle ed Erik, i due genitori erano degli esseri abominevoli. Due parassiti, manipolatori, psicopatici, molestatori. Una madre omertosa, tra le tante cose, e un padre viscido. Una famiglia da cui tenersi bene alla larga, da cui strappare dalle mani quei due figli che meritavano di poter riconoscere, nelle parole mamma e papà, un senso di protezione che invece è stato annientato dal terrore.
Come nella realtà, non sappiamo se questa versione terribile abbia a che fare con quanto raccontato da Erik e Lyle. Murphy sta infatti bene attento a non superare mai quel limite tra versione dei fatti soggettiva e verità inafferrabile. Sta un passo indietro, ascoltando tacitamente delle parole che non porteranno comunque da nessuna parte. Perché Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez non vuole andare da nessuna parte. Non vuole fare altro, se non raccontare l’unica cosa che sappiamo per certo: qualsiasi sia la verità, questa è una storia vera. Questa è una storia terribile.
Sia che i genitori siano dei viscidi molestatori pronti a farli fuori, sia che i figli abbiano deciso di ucciderli per prendersi l’intero patrimonio, il risultato cambia poco. Perché, in qualsiasi combinazione drammatica, si tratta comunque di una famiglia fatta a pezzi. Di un essere umano che decide di commettere nei confronti di un proprio figlio, padre o madre, un atto deplorevole, privo di qualsiasi giustificazione.
In questa secondo capitolo di Monsters è chiaro un cambio di registro da parte della serie, che per questo motivo potrebbe comportare reazioni contrastanti. Dahmer (qui la nostra recensione) era una narrazione per certi aspetti più adrenalinica, seppur estremamente attenta alla parte narrativa. Più grottesca e horror. Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez è invece un chiaro esempio di thriller. Una storia che procede con estrema gradualità, dando a qualunque scena la giusta importanza, ponendo l’accento anche su quelli che molti potrebbero definire tempi morti. Probabilmente, uno degli aspetti più rilevanti di questa stagione – che ha superato di gran lunga la prova del ritorno dopo il grande successo di Dahmer – ha a che fare infatti con alcune importanti scelte registiche.
Come non citare, in questo senso, l’episodio dal titolo The Hurt Man. In questa puntata, infatti, Ryan Murphy ci intrappola nella sala interrogatori insieme alla penalista Leslie Abramson ed Erik Menendez. Non possiamo uscire da lì, perché l’intero episodio sarà svolto in quello spazio che, pian piano, si restringe sempre di più, non togliendo mai l’inquadratura dal soggetto principale. Leslie è un personaggio che vediamo solo di spalle, rivolto completamente verso Erik. Più il tempo scorre, però, più l’inquadratura la manda fuori dal campo visivo, lasciandoci solo con la sua voce e il volto di Erik distrutto dalla sua verità o dalla sua alterazione della storia.
Con le sue parole spezzate da un nodo in gola – causato forse da un trauma, o forse da un rimorso – The Hurt Man si impone presto come uno dei migliori episodi di questa annata. Un pezzo da novanta che si consacra sia per la grande interpretazione di Cooper Koch sia per le scelte registiche, come l’utilizzo della macchina da presa.
In quell’episodio – che si pone praticamente a metà della narrazione – vivono i demoni della famiglia Mendenez, qualsiasi essi siano. Chi li piange, adesso, li conosce bene. E qualsiasi sia la natura di quelle lacrime, è sincera. La verità, in quel momento, è tutta in quello sguardo. Perché c’è una cosa che rende Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menendez un assoluto pezzo da novanta del thriller di questa annata: non cerca la verità. Rispetta l’ignoto, così come acconsente alla possibilità dell’andare oltre ogni ragionevole dubbio.
Si pone un passo avanti alla cronaca di quel tempo, troppo impegnata nei pettegolezzi da due soldi per trovare un momento per riflettere sull’atrocità di quanto accaduto, qualsiasi fosse la realtà. Radunarsi di fronte a un tavolo per decretare solo la colpevolezza o l’innocenza non basta per renderci estrenei alla vicenda. Non basta perché, se è vero quel che i due fratelli hanno raccontato, nessuno – quando erano piccoli – era intervenuto per salvarli da quell’inferno, pur sapendolo. E nessuna delle persone sedute al banco dei testimoni per urlare la propria sensazione di paura nei confronti di Erik e Lyle, ha mai alzato un dito per fornire un’ancora di salvezza ai due genitori, intimoriti dalla follia e dai comportamenti ignobili nei figli.
Erano tutti impegnati a spettegolarci sopra. In quel momento come al processo. Troppo presi dai salottini da Tv per chiedersi davvero cosa si possa fare per provare a salvare chi ne ha bisogno, o per affrontare con serietà e rispetto di chi è vittima, una storia così drammatica. Senza lucrarci sopra o vederla come l’occasione per arricchirrirsi sulle spalle di una tragedia. Ancora una voltà, come nel caso di Dahmer, Murphy tira dunque in ballo uno dei mali che non uccidono, ma che non impediscono questo atroce atto: l’omertà.
Vicina registicamente anche all’antologica American Crime Story, Monsters si divide in due parti, alternando la narrazione tra passato e presente. Tra ricordi e prospettive. Nella seconda parte è infatti evidente un richiamo alla precedente creatura di Murphy, la serie che – seppur con un successo abbastanza medio – affrontò il processo O.J Simpson, creando qui un richiamo al caso. Questa seconda parte di Monsters avrebbe potuto essere, sia per toni che per registro, un’ipotetica stagione dello spin off di American Horror Story. Un ritorno in piena regola che avrebbe potuto alzare ancora di più il livello della serie, e che invece fa di nuovo la fortuna di Monsters, una Serie Tv destinata a fare la differenza ancora a lungo, considerando l’immediato rinnovo per la terza stagione che Charlie Hunnam nel ruolo del serial killer Ed Gein.
La firma del regista è qui tangibile, e si avverte anche nella sua visione oggettivamente parziale delle cose. Affrontando le possibili conseguenze di un passato di abusi, il regista e sceneggiatore non fa sconti a nessuno, rappresentando i protagonisti come le vittime traumatizzate senza identità. Scevri di qualsiasi consapevolezza provano ad andare avanti sopravvivendo, diventando perfino carnefici di quegli stessi comportamenti. Come nel caso di Lyle che, secondo una possibile ricostruzione, avrebbe abusato di suo fratello. Ancora una volta, un’altra prospettiva spaventosa su cui non avremo probabilmente mai alcuna risposta. E ancora una volta, come nel caso di Dahmer, la mano di Murphy è ben visibile anche grazie al profondo studio dei dettagli, come l’utilizzo di costumi simili a quelli indossati nella realtà e una ricostruzione del processo – come frasi, confessioni e accuse – compatibili con quanto accaduto e detto realmente.
In quell’aula di tribunale vedremo la fine di questa storia, almeno fino a quel momento. Il verdetto irremovibile che condannava i fratelli a una vita in prigione per omicidio di primo grado nei confronti dei propri genitori. E poi le domande. Gli interrogativi e un’ultima scena che solleva ancora un ennesimo dubbio, affidato ancora allo sguardo di Erik e a una giornata in barca che fa intendere i Menendez come una famiglia tra le tante. Tutto quello che abbiamo visto è la verità. Tutto quello che abbiamo visto è una bugia. Non c’è modo di saperlo. Ma qualsiasi sia la risposta, tutto quello che abbiamo visto è una storia vera. Una storia terribile. Una storia di mostri, chiunque essi siano. La storia della famiglia Menendez.
Annalisa Gabriele