Il quinto episodio di Moon Knight rappresenta – salvo guizzi creativi nel finale – l’apice dell’intera stagione, affermazione che contiene alcuni pro ma anche tantissimi contro. Innanzitutto, il fatto di essere dovuti arrivare al penultimo episodio per assistere a una narrazione dignitosa e anche abbastanza emotiva. Secondariamente, per quanto interessante, la puntata è in fin dei conti solo il male minore all’interno di una stagione troppo confusa, superficiale e schizofrenica. Moon Knight non trova la sua ragion d’essere, arrivati ormai al finale di stagione risulta una verità tanto triste quanto ineluttabile. E questo episodio, che indubbiamente rappresenta una luce in fondo al tunnel, non riesce purtroppo a salvare una serie rimasta a metà. A dirla tutta, anche il quinto episodio non è esente da critiche, dimenticabili grazie alla performance di Oscar Isaac – l’ancora dell’intero show – e a momenti emotivi ben assestati.
Moon Knight, ricorrendo allo stesso espediente narrativo di WandaVision, utilizza il viaggio nella mente del protagonista per raccontare il passato di Marc e Steven. Nel dedalo di stanze imbottite del manicomio/aldilà, in cui abbiamo lasciato il nostro eroe nella scorsa puntata (qui potete trovare la recensione), vengono rivelati i traumi e dolori che hanno segnato il cammino per la nascita del vigilante mascherato.
ATTENZIONE SPOILER! Se non avete ancora visto la nuova puntata di Moon Knight vi consigliamo di tornare più tardi.
Oscillando continuamente tra realtà e finzione, passato e presente, il destino di Mark risulta sempre più incerto, scisso tra il desiderio di essere finalmente libero e l’obbligo morale verso il suo ruolo come Moon Knight. Alternando i ricordi dell’infanzia tormentata a un presente quanto mai oscuro, la mente frammentata di Marc Spector sembra quasi aggrapparsi a elementi a lui noti. A ben vedere possiamo notare numerosi parallelismi durante l’intero arco della puntata: da un lato la madre assente e violenta trova il suo contraltare nella protettiva divinità Taweret; dall’altro l’oceano di sabbia e l’acqua nella grotta sono entrambi luoghi di perdita. Il fratello minore di Marc, Randall Spector (che nei fumetti assume l’identità del villain Shadow Knight), muore quando i due erano piccoli, a causa di un gioco non ben calcolato. La colpa, ovviamente, non è di Marc – che ha peccato solo di ingenuità fanciullesca – eppure è lui che la madre accusa con violenza, anno dopo anno, fino a un punto di rottura.
Annientato dalla perdita e dai sensi di colpa, Marc si rifugia in se stesso creando così Steven Grant, dall’omonimo avventuriero protagonista di un film amatissimo dal fratellino. Steven nasce come valvola di sfogo, come alter ego in grado di sopportate gli abusi di un genitore senza amore e che, per tale motivo, conserva un ricordo immacolato della figura materna. Se Steven ama l’immagine idilliaca della madre, tocca a Marc reggere il peso della verità. Verità che, appunto, viene svelata a noi e all’alter ego solo in questo episodio.
Il quinto episodio di Moon Knight è dunque un’odissea che il protagonista compie sia sulla nave fisica dell’aldilà che all’interno della propria, frammentata psiche.
Cosa rappresenta allora l’ufficio con Harrow? All’interno dell’aldilà soggettivo creato da Marc, seguendo un certo ordine mentale, il protagonista potrebbe aver creato un luogo unico destinato né a lui né a Steven, bensì a una terza personalità. E chi magari se non quel Jack Lockley accennato qua e là nelle ultime puntate? Magari è proprio lui che vediamo legato a una sedia, pestato e con in volto cerotti da pugile fumettisticamente parlando rilevanti. Forse si o forse no. La realtà di Marc è quanto mai alterata lasciando anche noi spettatori in uno stato di perenne incertezza, persino a un passo dal finale.
La mente di Marc è davvero un pendolo che oscilla tra una realtà rassicurante e una crudele. Parallelamente alla bilancia che pesa le anime dei morti.
Anche Mark e Steven non sono esenti dall’esame divino ed è proprio con questo pretesto che inizia il loro percorso lungo il viale dei ricordi. Paura e oscurità emergono dal passato sotto forma di traumi infantili, mani sporche di sangue e un accordo compiuto nel deserto con il dio della Luna. All’interno della caverna di platonica memoria, Marc perde il fratellino ma anche se stesso, dando inizio a un percorso tortuoso con alla fine Konshu. Ed è proprio questo il secondo importante ricordo che viviamo, ovvero l’origin story fumettistica del personaggio di Moon Knight. Ai piedi di un tempio, Marc sta per togliersi la vita quando la voce di Konshu lo fa desistere dal proposito donandogliene uno nuovo, sotto forma di suo avatar.
Tornati all’esterno dell’imbarcazione, Marc e Steven vengono avvertiti da Tawaret che qualcosa di malvagio sta avvenendo nel mondo dei vivi segno che Harrow deve aver liberato Ammitt. Decisi a lasciare l’oceano di sabbia, i due riescono a convincere la dea ad attraversare la porta di Osiride, un po’ come se si chiedesse a Caronte di farsi dare uno strappo al ritorno. Durante un ultimo decisivo confronto tra le due personalità, la verità circa la fatidica domanda esce fuori. Chi è venuto prima, Steven o Mark? Come possiamo vedere, è Steven la personalità derivante dal trauma ed è lui a venir fuori quando il dolore e il senso di colpa diventano soverchianti. Come durante lo shiva della madre di Marc, morta due mesi prima gli avvenimenti narrati nella serie tv.
Giunti alla porta di Osiride, Marc e Steven non possono proseguire dato che la bilancia non si è del tutto assestata. Segue uno scontro un po’ confuso, fatto male e utile solo a farci piangere lacrime amare per Steven che, con l’estremo sacrificio, sembra aver incontrato così un atroce destino trasformato in una statua di sabbia. La bilancia si ferma improvvisamente e Marc viene spedito direttamente nei Campi Iaru chiudendo la puntata con una scena finale che, francamente, mi ha fatto solo pensare a una certa puntata di Rick & Morty.