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Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer – La Recensione: Murphy usa Dahmer senza parlare di Dahmer

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Ryan Murphy e Evan Peters tornano su Netflix con la miniserie Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer, un ritratto inedito del più spietato serial killer di Milwaukee facilitato nei suoi crimini dal vero mostro della narrazione: il suprematismo bianco.

La vicenda comincia dalla fine: è il 1991 quando il prolifico serial killer Jeffrey Dahmer (Evan Peters) riesce ad adescare il giovane Tracy Edwards (Shaun J. Brown) convincendolo a seguirlo nel suo putrido appartamento. Come da prassi, Dahmer droga il suo ospite e lo conduce in camera da letto, luogo dove è solito strangolare le sue vittime. Qualcosa però va storto ed Edwards riesce a scappare e allertare la polizia. Lo scenario che si presenta agli occhi delle autorità è di quanto più agghiacciante si sia mai visto: nel fetido appartamento vengono rinvenuti resti umani appartenenti ad almeno 15 persone, tra cui diverse teste mozzate, arti, genitali, organi interni, carne umana e uno scheletro intero. Servendosi della narrativa invertita, Murphy comincia così a tracciare l’evoluzione del cannibale di Milwaukee attraverso flashback cronologicamente disordinati, volti a mostrare le tappe segnanti della vita di Dahmer. Il profilo del killer, però, occupa solo i primi 5 dei 10 episodi che compongono la miniserie; lo scopo di Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer è soprattutto quello di dare risalto alle vittime e alle responsabilità che la polizia locale, l’amministrazione politica e il reiterato razzismo hanno avuto nella vicenda.

“Approfondendo questo caso, ho capito che non è solo un raccapricciante spettacolo horror, è una metafora di tutti i mali sociali che affliggono la Nazione”

Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer
Evan Peters nei panni di Jeffrey Dahmer (640×360)

Il primo salto temporale della narrazione ci conduce al 1966 mettendoci di fronte al bambino antisociale Jeffrey Dahmer, al difficile (se non inesistente) rapporto con gli amici di scuola a cui si affianca una situazione familiare ancor più drammatica. La forte depressione della mamma e la sua dipendenza da antidepressivi spingono la donna a tentare più volte il suicidio sotto gli occhi totalmente indifferenti del padre Lionel Dahmer (Andrew Shaver), che risponde all’isteria della moglie andando via di casa per lunghi periodi di tempo. Al crescere della solitudine del piccolo Dahmer corrisponde anche la nascita della sua passione per la tassidermia e per la vivisezione degli animali, nonché un perverso piacere nella manipolazione delle viscere. La prima vera tappa segnante della sua vita arriva però nel 1977, anno della separazione dei genitori e del suo totale abbandono a soli 17 anni. Rimasto da solo e ancora minorenne, Jeff manifesta il suo disagio attraverso l’abuso precoce di alcol, vivendo sempre più ai margini della società e compiendo, dopo soli 4 anni, il suo primo omicidio. La solitudine, le crisi di abbandono e il rifiuto costante rimarcati nella prima metà della miniserie si riflettono nella natura perversa dei suoi crimini, in particolare nella necrofilia e nel cannibalismo. L’insicurezza sociale unita alla paura ossessiva dell’abbandono spingono Dahmer ad approcciarsi agli uomini da cui è attratto solo quando questi non possono mai più scappare, trattenendoli letteralmente dentro di sé ingerendone le carni e arrivando persino a tentare di riesumare un cadavere “solo per abbracciarlo”, spiegando successivamente alla polizia che quel cadavere “sperava potesse essere una persona a cui andava di vedere un film”, senza lasciarlo da solo.

La natura traumatica della sua infanzia e l’inesistente rapporto con i genitori delineano la sua psiche senza volerne però giustificare in alcun modo le azioni. Sarà lo stesso protagonista a dirsi assolutamente cosciente al momento dei crimini, rifiutando di dichiararsi incapace di intendere e di volere:

“Io non sono pazzo, era solo facile ormai, è questo il problema. Ecco perché non smettevo di farlo”.

La facilità con cui riusciva a farla franca è il tema portante della seconda metà della miniserie Netflix, nonché la vera denuncia che Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer vuole portare sul piccolo schermo.

Glenda Cleveland
Glenda Cleveland (Niecy Nash) (640×360)

A partire dal sesto episodio, “Ridotto al silenzio” (probabilmente il migliore dell’intera miniserie), il punto di vista della vicenda si sposta sulle vittime e riconduce le linee temporali alla cronologia degli omicidi. Al dramma delle famiglie delle vittime è accostato inoltre quello di Glenda Cleveland (Niecy Nash), vicina di casa di Jeffrey Dahmer. Preoccupata per le urla e per l’odore nauseante dei corpi in putrefazione provenienti dall’appartamento di Dahmer, la donna finisce per essere quasi derisa dalla polizia dopo l’ennesima (e fallimentare) chiamata disperata al 911, a cui non è mai seguito l’arrivo di una pattuglia di controllo. Il culmine della negligenza è raggiunto quando due agenti, pur trovandosi di fronte a Dahmer insieme con un quattordicenne lobotomizzato incapace di reggersi in piedi, scelgono di fidarsi dell’insospettabile killer senza controllare neppure le generalità del minore, limitandosi ad ammonire i due per il consumo eccessivo di alcol. Ciò che si evince dai flashback da cui la narrazione è composta, è che Dahmer si era già trovato innumerevoli volte faccia a faccia con la polizia, senza che venissero però attuati controlli di alcun tipo nonostante una precedente accusa per molestie sessuali. La motivazione principale è da ricercare nel colore della pelle di Dahmer, unico bianco del quartiere Oxford, le cui vittime appartenevano tutte a minoranze etniche provenienti da quartieri difficilmente presidiati dalle autorità.

A sottolineare il concetto di doppio peso e doppia misura è inoltre il trattamento che la comunità stessa riserva a Dahmer in prigione, destinatario di numerose lettere da parte di ammiratori, e alle famiglie delle vittime, tormentate invece dalle continue telefonate minatorie, e ai quali vengono negati i risarcimenti da parte dello Stato, la cui inadempienza è stata causa della metà degli omicidi avvenuti per mano di Dahmer.

Ancor più che nelle scene crude e nella violenza esplicita (che, di tutta risposta, si limita ai soli momenti in cui Dahmer è solo), il vero peso drammatico di Mostro: La storia di Jeffrey Dahmer risulta dunque nella consapevolezza che quelle indicibili atrocità potevano essere evitate. Il rispetto con il quale Ryan Murphy si approccia alla narrazione degli eventi è reso evidente proprio dalla scelta di non mostrare mai il momento dell’omicidio, interrompendo la scena un attimo prima. L’unico episodio di inaudita violenza di fronte al quale ci mette la miniserie Netflix è il momento dell’uccisione di Dahmer, avvenuta per mano di un altro detenuto, strumento del Dio Vendicatore.

Dio del Perdono, Dio Vendicatore è il nome del decimo e ultimo simbolico episodio. Jeffrey Dahmer desidera la morte poiché sa che è ciò che merita, seppur non contemplata dallo Stato del Wisconsin. Sorte inversa è quella che tocca al serial killer John Wayne Gacy destinato, nello stesso periodo, a iniezione letale nell’Illinois e che, al contrario di Dahmer, sente di essere in pace con Dio e destinato al paradiso. Questa rassicurante convinzione spinge Dahmer ad avvicinarsi alla fede facendosi poi battezzare, raggiungendo il bramato perdono del Padre: Dio, quello vendicatore, e Lionel Dahmer, il padre da cui ha sempre desiderato vicinanza.

“È estenuante impegnarsi tanto per essere capiti?”

Il sonno della tolleranza genera mostri. Nel suo mondo interiore dominato dalle tenebre, l’unica speranza di redenzione rimane la salvifica morte. L’unica in grado di allontanarlo, ancora una volta, dalla solitudine.