Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul docufilm Nel nostro cielo un Rombo di Tuono
“Un autentico eroe del nostro tempo: per me non è mai nato nel calcio italiano uno come Gigirriva da Leggiuno. L’ho soprannominato prima Re Brenno e poi, dubitando del nostro senso storico, sono sceso a una metafora più western come “Rombo di tuono”. Ha avuto fortuna almeno pari a quella di Toro Seduto”.
Il tiro di uno schioppo. Secco, improvviso. Indescrivibile, da chi non ha mai avuto la fortuna di poterlo udire. Eppure vivido, nella memoria collettiva di un intero popolo. Al di là della retorica, resta l’agile esplosività di uno schioppo: un pallone calciato con la potenza di un essere etereo, disceso sulla Terra per dare anima e corpo a un sogno. Per trasformarlo in realtà, nel tempo dilatato di un colpo che valica i confini del terreno da gioco e abbatte il tempo rendendolo eterno. Uno schioppo, per spezzare il silenzio. Mentre vigoroso irrompe nella terra straniera, prima del boato. Il “Rombo”, dell’eroe. Dei suoi compagni, della sua gente. Il gol, poi ancora il silenzio. Pregno di sensi sospesi e mai vacuo. Il silenzio, di Gigi Riva. Della sua Cagliari. Della sua Sardegna, immersa in una storia di riscatti che si protrae da ormai cinquantatré anni. In un tempo perennemente presente che non ha bisogno di troppe parole e che si sostiene attraverso le gesta di un uomo irripetibile.
“Gioca un calcio in poesia”, sosteneva Pier Paolo Pasolini a proposito di lui. E sembra quasi contraddire quanto sostenesse Gianni Brera: da un lato la leggiadra delicatezza dell’artista, dall’altra l’imponente potenza del guerriero. Invece no, Gigi Riva si innalzava attraverso un equilibrio di elementi che sarebbero stati discordanti per chiunque altro: al rombo univa il sussurro, alle cannonate una danza. Al grido, i dialoghi stringati. L’adone di Raffaella Carrà, desiderio proibito di chissà quante donne, e il cagliaritano semplice che fino a pochi anni fa era comune incrociare a piedi tra le strade della sua San Benedetto, salda dimora di una vita. Una sensibilità rara in cui il corpo offriva l’espressiva intensità di un uomo introverso, e definiva i tratti di una leggenda sullo spirito di un uomo senza fronzoli: l’immortale Riva, il signor Luigi. Le luci del mondo, conquistate in nome di Cagliari, della Sardegna di un’Italia intera che trova in lui, ancora oggi, uno dei massimi riferimenti della sua gloriosa storia. E la penombra di casa sua, invasa di fumo, in cui aleggia una leggenda mentre l’uomo parla: una figura statuaria, monolitica, eterna e intaccata dal tempo con la massima linearità possibile, mentre gli occhi dicono tutto quello che c’è da dire.
Gigi Riva ha trovato in Riccardo Milani un intimo storyteller che non mette mai se stesso davanti alla storia veicolata, essenziale e raffinato nell’omaggiarlo all’interno di un racconto sentito e necessario. Nel nostro cielo un Rombo di Tuono, splendido docufilm disponibile da alcuni giorni sulle varie piattaforme di Sky, restituisce infatti l’essenza del mito sardo arrivato dalla lontana Leggiuno, la cui icona non infrange mai le barriere poste dall’uomo. Un’opera equilibrata impreziosita dalla colonna sonora avvolgente di Paolo Fresu, le incursioni di Morricone, la poesia di De André e le melodie di alcune tra le voci più brillanti di una terra dai mille volti. Ma soprattutto dalle parole dello stesso Riva, sempre rare e incisive, e le testimonianze di chi ha avuto la fortuna di condividere con lui un percorso unico, culminato in uno storico scudetto che rappresenta ancora oggi, per i sardi, un trionfo andato ben oltre il calcio e lo sport. Un trionfo che si traduce nel riscatto di un popolo osteggiato da chiunque non sapesse – e non volesse – capirlo, arrivato su un campo da gioco per mere esigenze del destino. Un popolo che Nel nostro cielo un Rombo di Tuono si trasforma in un soggetto attivo della narrazione, unendo in un solo coro l’esperienza del singolo e le inarrivabili emozioni provate da chi si è riscoperto grande in un pomeriggio di metà aprile del 1970.
Nel nostro cielo un Rombo di Tuono parla ai sardi e a chi sardo non è mettendo in scena attraverso il grimaldello Riva, il primattore che ha schiuso i confini dell’isola, la storia contemporanea di una regione che sarebbe limitante definire solo come tale.
Una storia complessa, densa di sgarbi e oltraggi che hanno macchiato indelebilmente il popolo senza penetrare in alcun modo nel suo Dna, in cui i “pastori” e i “banditi” hanno assunto per una volta il ruolo dei conquistatori: non per prevaricare il prossimo, bensì per rivendicare la propria identità. Una storia scritta, per moltissimi versi, da un uomo dalla storia altrettanto complessa: orfano in giovanissima età sia del padre che della madre, Riva ha trovato nella Sardegna un’imprevedibile casa. Come il docufilm evidenzia più volte con solenne puntualità anche attraverso l’utilizzo funzionale dei mamuthones, maschere sarde che paiono assumere il ruolo di un pauroso spauracchio da disvelare attraverso un doveroso atto d’amore, la relazione di Riva con la Sardegna fu accompagnata, agli esordi, da una naturale diffidenza: una paura che sfociava nella timidezza di un giovane ragazzo che vedeva nel viaggio in Sardegna una qualche punizione.
Fu, però, questione di un attimo: Riva, dopo poco tempo, capì. Si connesse coi sardi e trovò in loro della persone insospettabilmente simile a lui: fiere, rette, introverse eppure accoglienti. Essenziali e pragmatiche, senza per questo rinunciare all’idea del sogno. Un po’ come successe a un altro sardo non sardo, sardissimo tra le righe della sua anima: Fabrizio De André, uno che non poteva non stringere amicizia con un uomo che si fece a sua volta, calcisticamente, cantore degli ultimi. Riva non sapeva che il 1963 sarebbe stato l’anno in cui avrebbe trovato casa sua: una casa che non lascerà mai per ricambiare l’affetto di un popolo che l’ha adottato visceralmente, facendone uno di loro. Riva, allora, si trasforma nell’uomo capace di dire no a chi pensava che i soldi potessero comprare ogni cosa, asseconda il destino come un vero “homine“, l’hombre vertical che non voleva saperne di scendere a patti coi soggetti di un mondo malato, e lo scrive allo stesso tempo. Fino ad arrivare là, dove nessuno pensava si potesse arrivare: sulla vetta più alta di un’Italia meno distante con uno scudetto che ha sfidato storie già scritte, ignobili torti e poteri forti che non volevano saperne di piegarsi all’indomita determinazione di una squadra eroica. Ha offerto “il piacere di pensare alla Sardegna come un posto in cui il successo arriva”, come sottolinea lucidamente Massimo Moratti, e ha trasformato così la percezione esterna dell’isola stessa.
Tra una sigaretta e l’altra, Nel nostro cielo un Rombo di Tuono intreccia continuamente le gesta di Riva con l’epopea di una Sardegna inedita agli occhi di chi non ha mai voluto esplorarla.
I tenores si fanno allora delicata sinfonia d’ogni gol e paiono duettare coi cavalli selvaggi dei Rolling Stones mentre le radioline si accendono, ritrovano Ciotti e Ameri, i gol impossibili e le terribili cadute del semidio, messo a terra dalla violenta irruenza di un difensore incauto. La lunga parabola di Riva si riflette ancora nelle esperienze dei suoi eredi, nel momento in cui lascia il calcio e le trasmissioni si interrompono: i compagni di sempre lo abbracciano, gli amici si mostrano presenti e quelli ormai scomparsi generano un malinconico silenzio. I miti lo omaggiano e Barella, il gioiello più fulgido della scuola calcio da lui creata nel 1976, si siede sopra un pallone: al centro del campo, quasi fosse un bambino che parla di suo nonno. Un nonno speciale, a cui deve sostanzialmente tutto e che sembra portare avanti, oggi, i valori di un uomo fattosi insegnante di vita senza averlo mai voluto. Al pari di quanto avessero fatto in precedenza Matteoli e Zola, profeti in patria – e soprattutto fuori – per dare continuità a una storia non certo conclusasi col ritiro del mito: la “sardità”, nel calcio, avrà sempre un significato speciale.
Tra una sigaretta e l’altra, Nel nostro cielo un Rombo di Tuono scorre così fino a una conclusione che pare persino naturale, nella sua perfezione: un viaggio in auto tra le strade di una Sardegna sconfinata, unita dall’amore per il principe fattosi re, e una spiaggia. La spiaggia di sempre, il Poetto. Il sole, il mare, la sabbia, la Sella del Diavolo, un bambino con sua madre e un uomo, di spalle. Un sorriso, vero. E un tramonto che non arriverà mai, contro ogni logica di un tempo costretto ad arrendersi alla testardaggine di un popolo imperituro. Un tramonto che verrà spezzato per sempre dalla vista di un fulmine e da un boato improvviso: un rombo, il rombo dell’indiano di De André. Del longobardo, del cowboy solitario che sembra uscire da uno spaghetti western di Sergio Leone. Clint Eastwood, Toro Seduto, Re Brenno. Gigirriva da Leggiuno, tutto attaccato con due erre. Luigi, il cagliaritano. Luigi, il sardo. Gigi. Rombo di Tuono, per sempre.
Antonio Casu