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Outer Range – La Recensione della prima stagione del western sci-fi

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Attenzione, la lettura implica spoiler sulla prima stagione di Outer Range.

Il rodeo è una prova di equilibrio, tutto sta nel non farsi disarcionare da indomiti cavalli che, al contrario, faranno qualsiasi cosa per buttare il cowboy a terra. Il trucco è lasciarsi coinvolgere nel movimento, non bisogna opporsi, è inutile tentare di bloccarlo, bisogna seguire la corrente, essere morbidi, elastici, senza farsi domande, senza fermarsi a ragionare. Ecco, Outer Range assomiglia un po’ a un rodeo e non solo nel folklore americano che trova ampia espressione nelle immense praterie del Wyoming, ma anche, anzi soprattutto, nella sua parte più selvaggia, quella che non si può domare, non si può spiegare, si può solo accettare e lasciare che ci porti via.

Outer Range è fatta di equilibri precari, proprio come quello di chi cavalca senza sella: da una parte c’è la tradizione, la storia, il tempo che sembra immutato da decenni e dall’altra c’è il futuro, la scienza, i combustibili super-efficienti e l’innovazione. Da una parte ci sono l’onore e il buon nome della famiglia, dall’altra ci sono il denaro, gli interessi e il progresso. Da un lato ci sono i terreni ereditati dai propri avi, dall’altra un profondo buco nero dove tutto sembra dissolversi. E per quanto questi aspetti siano opposti e apparentemente incompatibili, questa serie riesce a ondeggiare da un estremo all’altro senza perdere di credibilità in nessuna delle due direzioni.

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La storia di Outer Range racconta la rivalità fra la famiglia Abbott e la famiglia Tillerson, proprietarie di due ranch attigui, ma gestiti con enormi differenze. Tanto mite e modesto quello degli Abbott, tanto maestoso e opulento quello dei Tillerson, in realtà nascondono entrambi lo stesso numero di segreti e vecchi rancori, e sebbene i Tillerson siano molto più sfacciati e sprezzanti nella loro violenza, si scoprirà in fretta che gli Abbott sono ugualmente violenti, ma molto più bravi a nasconderlo. Come nella più classica trama western, anche questi datati cowboy lottano per ampliare i loro possedimenti e si faranno la guerra per il pascolo ovest degli Abbott, ma non sarà solo una scusa per l’ennesima dimostrazione di forza.

Quel lembo di terra nasconde un segreto, che Royal Abbott conosce e Wayne Tillerson pensa di aver capito. È su questo segreto che Outer Range smette di essere un modern western alla Yellowstone e ci stupisce trasformandosi quasi in un thriller di fantascienza. In quel pascolo c’è una voragine, nera, profonda, muta e densa. Sembra che il mondo trattenga il fiato man mano che ci si avvicina a questo buco, attorno al quale tutto sembra accadere. Un buco che assomiglia così tanto alla caverna di Dark: quell’oscuro ingresso che porta in ogni luogo e in ogni tempo e sembra attirare a sé chiunque vi orbiti accanto. Da cui entrano individui ed escono conseguenze.

Se il paragone con Yellowstone balza agli occhi alla prima inquadratura e quello con Dark entro la fine del primo episodio (volendo essere puntigliosi, la rivalità fra famiglie potrebbe rimandarci alla serie western The Son), il susseguirsi delle puntate ci farà ritornare alla mente quelle dinamiche da piccolo paese già viste in Twin Peaks. Amelia County è un paesino sperduto del Wyoming, in cui tutto scorre sempre uguale, senza intoppi, senza scosse. Gli abitanti si conoscono tutti, da sempre e tutte le più classiche dinamiche delle piccole cittadine si ripropongono anche in questa serie: dai segreti di famiglia, agli amori del liceo, fino allo sceriffo che chiude un occhio all’occorrenza. E come in Twin Peaks il più rassicurante dei mondi possibili diventa velocemente il più inquietante e il momento in cui le cose cominciano a precipitare, non a caso, coincide con l’arrivo di uno straniero, anzi un’estranea senza un passato e senza una meta. Amelia nell’arco di otto episodi si trasforma da posto sicuro a luogo dove tutti hanno qualcosa da nascondere, in cui non vi è più certezza che stiano accadendo cose di questo mondo, dove sono frequenti visioni inspiegabili, quasi oniriche, di morte e resurrezione.

Outer range

Ciò che rende Outer Range interessante è questa commistione di generi, questo insieme di tradizione e innovazione che non risulta mai forzato o assurdo: paradossalmente l’immagine del vecchio cowboy silenzioso e quasi rude, introverso, riservato sul suo passato e molto attaccato alla sua terra, rende plausibile l’omertà di fronte agli accadimenti narrati, ma anche la capacità di mantenere un segreto così grande. È quasi ovvio che voglia tenere lontani gli occhi indiscreti e difendere la propria famiglia, trincerandosi dietro le quattro mura domestiche. La famiglia è un valore, un’istituzione, è prioritaria, ma è anche un sistema chiuso.

Paragonare Outer Range ad altre serie fa sembrare lampante che forse l’idea di fondo non sia poi così innovativa e originale. Si ha l’impressione di un vago déjà vu in più di un’occasione durante la visione, ma è pur vero che non sembra la brutta copia di nessuna altra fra quelle citate. Le racchiude si, ma rimescolandole e trasformandole, fino a ottenere qualcosa di completamente differente, capace di agganciare la curiosità dello spettatore. Ma è come il rodeo abbiamo detto, valgono poco teorie, ipotesi, previsioni, il tentativo di dare un senso razionale a tutto non ha spazio in questa serie. È imprevedibile e selvaggia. È lo spettatore che deve adattarsi al suo svolgimento, deve cercare di restare in equilibrio il più possibile, facendosi trascinare dagli eventi fino al (forse un po’ caotico) finale.

Perché l’equilibrio si mantenga, la serie si appoggia a un cast ben scelto (Josh Brolin, Will Patton e Lili Taylor solo per citarne alcuni), ma soprattutto alla scrittura di personaggi delineati in maniera molto efficace, che più che evolversi si svelano, ma nel loro lato più grottesco. Dal protagonista così solido e misterioso, al suo alter ego meschino e avido. Dall’imprevedibile violenza che scaturisce da Perry Abbott, alle incredibili (quanto fuori luogo) doti canore di Billy Tillerson. Se la logica della trama talvolta vacilla, il cast e i personaggi sono abbastanza solidi da tenere tutto in piedi, insieme all’ambientazione. L’aria fresca del Wyoming in questa serie diventa stantia. Aria ferma, che sa di vecchio, sullo sfondo di meravigliose montagne innevate e del più azzurro dei cieli. Uno stile nelle riprese tanto ampio sui paesaggi quanto claustrofobiche negli interni e nei primi piani che risultano quasi invadenti. Tutto è scelto e pensato con molta cura e concorre a creare una storia che funziona.

Insomma la sospensione dell’incredulità è un requisito fondamentale per approcciarsi a questa serie, ma ne vale la pena, perché di cowboy così non se ne sono mai visti.

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