Siamo stati bellissimi e infelici. Sono stata determinata e frivola. Sono stata come Napoli. Sono queste alcune delle parole con cui Parthenope ci saluta prima dei titoli di coda, prima di lasciare a noi il compito di pensare a tutto il resto. Per questo motivo è necessario partire dalla fine per parlare del nuovo film di Paolo Sorrentino, dalle uniche parole che la protagonista scomoderà per parlare di sé, dopo essere scappata per 136 minuti da ogni possibile definizione. Perché forse definirsi è sminuirsi un po’.
E definire l’ultima opera di Paolo Sorrentino significa sminuirla un po’. Perché lo sappiamo cosa spesso si tenda a fare quando si guarda un film sorrentiniano: si cerca di definirlo, di trovare un ABC, di interrogarsi. Ma questo sfugge alla definizione dell’indefinibile su cui Sorrentino ha fondato il suo unico credo. L’urgente esigenza di esimersi dalla logicità, raccontando e raccontandosi attraverso qualcosa che porta dentro come un fardello, il suo unico e profondo sentimento nei confronti di tutto quel che è stato, è, sarà.
Se in E’ Stata la Mano di Dio Sorrentino racconta la parte più intima di sé legata al suo passato, in questo caso ritorna all’origine. Ritorna a La Grande Bellezza. Lo fa attraverso un nuovo frammento di sé che, nella Roma eterna, si concretizzava nella paura del niente di Jep Gambardella. E che adesso, invece, viene fuori attraverso la parabola di una donna inafferabile, tormentata e dannata. La donna di cui presumibilmente parla Jep stesso quando racconta di non potersi muovere di fronte al suo sguardo. Quello sguardo che abbiamo visto nel 2012 ottiene, metaforicamente, una voce nel 2024, chiudendo un cerchio fatto di due occhi frangibili, vulnerabili e inquieti. Proprio come Paolo Sorrentino. Proprio come Napoli.
Parthenope è Paolo Sorrentino stesso. E’ la sua Napoli. Una lettera d’amore alla decadenza, alla degradante malinconia che, alla fine della vita, si trasforma in ironia. A tutto quel che non abbiamo mai visto, perché non abbiamo mai imparato a vedere. Una cosa così semplice, che s’impara sempre troppo tardi
Parthenope nasce in acqua, e all’acqua apparterrà per sempre. Perché Parthenope non è fatta per appartenere a nessuno. La cosa più cara che ha è il nulla, l’unica cosa che l’ha spinta davvero a non arrendersi in mezzo a quel degrado, a quell’insoddisfacente famiglia in cui non esistono ambizioni e l’unica cosa che si ha per guardare è oltre. Il mare di Parthenope. Non cerca la ragione. Non cerca la logicità. Si lascia andare, vivendo una giovinezza che sa che non tornerà più, assaporando una bellezza che potrebbe non accoglierla nello stesso modo in futuro.
Perché l’unica cosa che conosce di sé Parthenope è la sua bellezza, e il resto lo ignora. Volontariamente, involontariamente. Studia e si laurea con il massimo dei voti in una materia di cui non ha ancora capito la definizione. Cosa è l’antropologia. Se lo chiede costantemente. Lo chiede al suo mentore, il professore disilluso e stanco dalla vita. L’unico ad averla guardata davvero senza mai cedere alla sua bellezza perché oramai troppo disincantato per soffermarglisi, cogliendo soltanto le sfumature di un’anima condannata all’infelicità.
Per tutto il resto c’erano gli altri. Sguardi rapiti da un solo passo, un movimento. Qualsiasi cosa mossa Parthenope facesse aveva un solo scopo: avvisare della sua presenza. Perché una volta vista, poi non si poteva più distogliere lo sguardo. E Parthenope lo sapeva. Era il suo superpotere, l’unico che conosceva. L’unico che le dava una certezza in una terra che non sapeva offrirle nient’altro. Della sua vita, in questi 136 minuti, abbiamo conosciuto tutto.
E abbiamo potuto constatare quanto la porcellana del suo viso non avesse a che fare soltanto con un convenevole. Un comodo modo di dire per raccontare la sua bellezza. La porcellana del suo viso era lo specchio della sua parte più intima e inscavabile. Una parte che Parthenope è stata ben attenta a nascondere a chiunque, perfino a se stessa. Distruggendosi, perdendosi, cadendo in un vortice dannato, Parthenope non smette di volersi bene, capisce di non essersene mai voluta davvero. Di essere lei stessa, la parte più degradata della sua vita.
Con una lettera d’amore alla sua Napoli, Paolo Sorrentino ritorna sul grande schermo riesumando la grandezza. Giocando con una fotografia e una narrazione che si divide tra il sacro e il profano, tra il fanatismo e l’assenza totale di qualsiasi credo che non sia il proprio. Tra la Napoli da cui ritorna e la Napoli da cui è andato via. Perché sono due Napoli diverse, ma ricevono lo stesso amore. Perché una città può toglierti tanto quanto ti restituisce. E lo abbiamo visto con E’ Stata la Mano di Dio (qui la recensione) che cosa questa città abbia tolto al regista, ma anche cosa gli abbia regalato.
Seppur diversi in tutto, E’ Stata la Mano di Dio, Parthenope e La Grande Bellezza andrebbero dunque visti in ordine di uscita. Il trio che chiude un cerchio cominciato nel 2012, in cui il dono della bellezza era stato affidato a Roma, all’ignoto mai conosciuto. Questo è l’unico modo che si ha per avvicinarsi davvero alla lettera d’amore che Paolo Sorrentino ha scritto alla sua città. L’inquietudine di Parthenope. Quella costante voglia di andar via, ma l’esigenza di ritornare in quel posto da cui è fuggita ma senza mai andare via davvero. Perché un posto non lo lasci neanche quando te ne vai. Se ti resta dentro, sei costretto ad abitarci per sempre.
Nel mondo esistono troppe cose, e il materiale di cose da dire supera nettamente il mio intelletto. Lo diceva Kakfa, e forse non esiste una combinazione di parole migliori per descrivere l’ultima opera di Paolo Sorrentino. Arrendersi al fatto che esista l’indefinibile, e che le parole, la logicità, il significato da ritrovare non sempre possano giungere da noi con le risposte in mano. A volte non possono arrivare. Possiamo solo interpretarle, mettendoci dentro qualcosa che sia solo nostro. Parthenope è un film in cui tutti possono rintracciare un materiale diverso, uno spunto differente da cui ripartire.
Possono essere l’inquietudine della protagonista, così come possono essere la disillusione di un’attrice che scappa da una Napoli che non ha mai saputo amarla e a cui adesso riserva soltanto rancore. Nella triste solitudine di un uomo di mezza età che si sente spettatore della propria vita, come se tutto oramai vivesse lontano dal suo controllo, rinchiuso in una prigione in cui oramai è costretto a scontare un ergastolo. Parthenope ha spazio per tutti, seppur sempre attraverso la prospettiva della sua protagonista.
E’ con lei che con ogni altro personaggio dovrà scontrarsi, vivendo una notte, dieci minuti o tutta la vita. Un loro dialogo disincantato dalla vita lascerà qualcosa a Parthenope, che potrà presto rendersi conto di non essere l’unica dannata in questa terra. Una consapevolezza che le provoca una sensazione di irrequietezza, perché non è da sola. Non è l’unica con dei mostri da addomesticare. E’ un’anima sofferente tra le tante in un mondo che soffre costantemente. E non c’è cosa più spaventosa, per Parthenope, di potersi scoprire dimenticabile.
Parthenope è un’opera sontuosa. Un disincantato manifesto di una realtà poeticamente degradante in cui trovare, nelle mura che cadono, il proprio stesso riflesso. Perché siamo come quei pezzi rimbalzati per terra che hanno scheggiato l’asfalto. Quelli grossi, sì. Ma siamo anche come quelli piccoli che rimbalzano ben lontano dal muro caduto e che, senza che nessuno se ne accorgesse, sono finiti dall’altra parte della strada. Nell’indifferenza generale di chi li calpesta e li ciancica, senza sapere come o perché adesso intralcino la strada.
Siamo il pezzo rotto, e siamo anche quello più piccolo. Abbiamo diverse forme e sostanze, e un dolore logorante che non ci molla. Come quella scena in cui Parthenope si accascia per strada in preda alla disperazione, ma nessuno se ne accorge. In quell’istante, Parthenope è un pezzo di muro caduto che nessuno si accorge si sia rotto. Conoscono la sua bellezza, ma nessuno ne sa niente di quell’inquietudine. Della sua irrequietezza. Perché Parthenope è stata bella, sì, ma è stata anche infelice. Frivola, tanto quanto profonda. Autentica, tanto quanto necessariamente costruita. E’ stata come questo film indefinibile e disperato, l’assonanza perfetta tra le contraddizioni e la verità, tra l’irrilevante e il decisivo.