Non sono passati nemmeno un paio di mesi dall’ultima volta che una piattaforma streaming ci ha proposto la sua nuova versione del classico personaggio nato dalla penna di Carlo Collodi sul finire dell’Ottocento. Una trasposizione, quella di Zemeckis, che non ci aveva saputo convincere e che era caduta subito nel dimenticatoio, sulla scia dei tanti live action Disney che, pur cercando di far conoscere a un nuovo pubblico i propri storici cartoni animati, hanno quasi sempre finito per annoiare o, comunque, non ripagare al 100% l’attesa. Così, quando ci siamo approcciati alla visione della nuova pellicola Netflix, Pinocchio di Guillermo del Toro, nonostante fossimo pieni di curiosità grazie al meraviglioso trailer diffuso qualche mese fa in rete, abbiamo volutamente scelto di abbassare le nostre aspettative, decisi a non lasciarci deludere ancora una volta.
La visione di questo cartone in stop-motion che ha richiesto una produzione di anni e anni (al cinema dal 5 dicembre e sulla piattaforma dal 9) ci ha ripagato di ogni dubbio con tanto di interessi: la pellicola del regista messicano è infatti l’esempio lampante di come si possa andare a scomodare un grande classico e infondergli nuova linfa, di come da un soggetto che ha avuto già tante vite come Pinocchio si possano trarre spunti inediti e innovativi, capaci di commuovere e di emozionare
Se infatti il film si intitola in lingua originale Guillermo del Toro’s Pinocchio, ciò non si deve al caso. Quella a cui abbiamo assistito è infatti la precisa visione che questo inconfondibile autore ha della fiaba di Pinocchio: una riscrittura originale, ma soprattutto coraggiosa nel ribaltare la maggior parte dei topoi narrativi della storia, nonché dei ruoli dei suoi personaggi e del senso finale di tutta l’opera. Una rielaborazione del tutto necessaria che torna a rendere attuale e fresca una storia che sembrava aver già dato quanto poteva. In questo, il timbro di marchio di del Toro è inconfondibile: l’estetica grezza che nasconde una cura incredibile, le atmosfere cupe, la lotta a ogni tipo di costrizione, la rivalsa dei freak… Tutti aspetti che contraddistinguono da sempre la poetica del regista. Ciò, d’altra parte, non ci sorprende. L’uomo ha infatti dichiarato di aver avuto il grande desiderio di portare in sala la sua visione della fiaba di Carlo Collodi sin dal 2008, progetto che iniziò però a concretizzarsi solo a partire dal 2017 grazie a Netflix, con la quale Guillermo del Toro ha stretto un proficuo sodalizio.
Ma cosa ha reso straordinariamente diversa quest’ennesima trasposizione su Pinocchio? Scopriamolo insieme. Allerta spoiler, siete avvisati!
Se avete avuto modo di visionare alcuni tra i dietro le quinte del girato avreste già potuto rispondere a tale quesito. Vedere l’impeccabile attenzione con cui quelli che tecnicamente sono “solo” pupazzi di plastilina prendono vita grazie alla tecnica dello stop-motion non può che suscitare in noi una grande emozione, quella che solo la magia del cinema, la settima arte può donare: uno spettacolo per gli occhi che non appaga solo i nostri sensi, ma anche il nostro cuore. Dall’originalissimo character design dei personaggi fino alla cura per le ambientazioni italiche entro le quali le vicende sono ambientate, dalle bellissime canzoni che costellano la pellicola alle scelte registiche: tutto trasuda grande amore e grande passione. Questo film è fatto davvero con il cuore e le interviste in cui Guillermo del Toro viene chiamato in causa sull’argomento, palesemente emozionato e commosso dalla propria opera, ne sono la prova definitiva.
La regia dietro al film, d’altra parte, si rivela semplicemente impeccabile: capace di veicolare emozioni e suggestioni interne al film, dal palese parallelismo tra la figura di Pinocchio a quella del Crocifisso, dai sottesi omaggi all’opera originale di Carlo Collodi, riprese in piccoli particolari.
Essere pienamente originali richiede grande coraggio ed è questo che il regista e sceneggiatore ha dimostrato scegliendo di scomodare un grande classico della letteratura, conosciuto da grandi e piccini in tutto il mondo. Una scommessa che ha riscosso i suoi frutti! Il lavoro di del Toro è stato infatti quello di prendere il soggetto di base della storia, calarlo in un contesto del tutto inedito e ribaltarne il senso ultimo, riuscendo in questo modo, in maniera quasi paradossale, a omaggiarlo nel miglior modo possibile. Questa nuova versione di Pinocchio è, infatti, certamente più adulta, cruda e profonda rispetto a quella Disney e, pur restando accessibile ai più piccoli, è certamente rivolta maggiormente a un pubblico più adulto, capace di trarre i suoi messaggi in maniera più analitica.
Tutti gli stilemi originari dell’opera madre infatti crollano sin dall’incipit, una coltellata dritta al cuore dello spettatore che ci ha ricordato a tratti il traumatico prologo di un’altra piccola perla dell’animazione, Up. Nel racconto infatti assistiamo all’inedito vissuto di Geppetto che, prima di diventare il creatore di Pinocchio, era il felice babbo di Carlo, un bambino buono e gentile, solare e premuroso strappatogli via dalla Grande Guerra. Il devastante dolore del falegname dà il via alla storia: Pinocchio non nasce per il bisogno di Geppetto di emanciparsi dalla propria condizione di povertà (come nel libro di Carlo Collodi), non grazie alla cura e alla perizia di un uomo gentile, ma dall’impeto di rabbia di un uomo ubriaco incapace di gestire il dolore e la solitudine di una persona che è stata privata di un figlio. Ecco così che una personale reinterpretazione della Fata Turchina (che ricalca perfettamente la poetica dell’autore) sceglie di donare vita al burattino creato da Geppetto affinché ridoni luce a un uomo spezzato. La fata inoltre decide di affiancare alla sua creazione Sebastian il Grillo, il narratore della storia che già viveva nel cuore del burattino quando esso altro non era che un semplice pino, affinché lo guida sulla retta via.
Così nasce Pinocchio, burattino che non sa niente del mondo ma che riesce a entusiasmarsi per ogni cosa.
Capace di essere tanto dolce e solare quanto volubile, immaturo e capriccioso: un peso che Geppetto, che rivoleva solo il proprio amato Carlo, non aveva richiesto. Ignorando gran parte delle situazioni che avevamo imparato a conoscere grazie all’opera originale e le precedenti trasposizioni, animate o meno, condensandone altre e creandone da zero altre ancora, la pellicola riesce a risultare agli occhi dello spettatore tanto familiare quanto capace di stupire. Questo si deve sia all’ambientazione storica in cui si collocano le vicende trattate, un’Italia di epoca fascista in cui ogni tipo di ribellione al sistema è vista come una minaccia, sia alle tematiche che infondono la pellicola: il dolore e la genitorialità, l’importanza di essere se stessi, l’amore e la mortalità.
Elementi che forse “tradiscono” l’opera originale, pensata per essere un racconto di formazione per i più piccoli, un richiamo alle nefaste conseguenze di scelte avventate e della disobbedienza, ma che rendono l’opera molto più attuale. Un atto forse blasfemo, ma che, nonostante tutto, non fa altro che rendere l’opera di base ancora più universale. Il senso finale del film infatti invita a una sana dose di ribellione: una dichiarata critica rispetto al rigido conformismo di un regime fascista che vorrebbe rendere tutti uguali e inquadrati, ma anche una preso di coscienza del proprio io che porta a essere la versione migliore di se stessi e non repliche di qualcun altro.
Nonostante una lunghezza forse eccessiva rispetto a quanto raccontato, Pinocchio di Guillermo del Toro emoziona e lo fa scavando nel profondo e portandoci di fronte una fiaba in cui a prevalere sono i buoni sentimenti, ma che non per questo si fa scontata. Il film infatti mantiene sempre una propria particolare impronta, ammantandosi di quel cupo alone che ha da sempre caratterizzato lo stile del regista messicano, uno stile che si manifesta visivamente nelle due sorelle “fate” che condizionano il destino di Pinocchio e dei suoi cari e soprattutto nel concetto di morte che permea il film dall’inizio alla fine, sia nella resa estetica che nell’originale mondo dei morti presentato. Una nota amara che poi tanto amara non è e che ci mostra come tutto passa, ma che, allo stesso tempo, tutto resta, nel cuore, nella memoria.
Questo film punta in alto e lo fa con stile, ricordandoci, in un’epoca sempre più affollata da effetti visivi e CGI, che il tempo per un cinema più grezzo e artigianale, ma forse anche più autentico, non è ancora finito. Con l’avvicinarsi della stagione dei premi, non possiamo fare altro che augurare il meglio per questa pellicola: chissà che ci possa scappare l’ennesimo Oscar per Guillermo del Toro. Noi lo speriamo tanto.