Attenzione, l’articolo potrebbe contenere spoiler sulla serie tv Pistol
I Sex Pistols sono durati una manciata di anni e con una manciata si intendono davvero non più di cinque. Eppure quello che quattro ragazzi di Londra sono riusciti a fare alla fine degli anni ’70 è rimasto per sempre nella storia della musica. La loro è una storia strana, a metà fra realtà e finzione, fra costruzione e spontaneità, fra ricchezza e bassifondi. Una storia di estremi che, come era prevedibile, finisce in maniera altrettanto estrema. È una storia di coraggio e di gente che non ha niente da perdere. È una storia di traumi e di amicizia. È la storia di una generazione senza futuro.
Pistol è la vita di Steve Jones, un ragazzo dall’infanzia difficile, semi-analfabeta, che coltiva il sogno di lasciare un segno in una Londra glam e benpensante che lo rifiuta sistematicamente. Insieme ai suoi amici di sempre Paul Cook e Glen Matlock, cominciano a frequentare in maniera piuttosto assidua il negozio di Vivienne Westwood ” Sex” dove faranno conoscenza con il compagno di lei, Malcom McLaren. Il resto è storia, McLaren decide di assecondare la voglia di mettere su una band di questi tre ragazzi con un piano preciso e costruito a tavolino: presenta loro Johnny Rotten, li veste e procura loro un posto dove provare. Insomma comincia a costruire quello che non si propone solo come un fenomeno musicale, ma piuttosto come la rivolta di quella fetta di società che è stanca di venire continuamente rifiutata solo perché incapace di omologarsi.
La serie quindi mostra l’intento reazionario della gioventù londinese nei confronti di un sistema capitalistico e consumistico a cui non si sentono di appartenere, ma implicitamente anche come sia proprio questo sistema ad averli creati e come finirà per schiacciarli. Hanno qualcosa da dire e abbastanza fiato per urlarlo, vogliono risvegliare le coscienze, dare voce a una generazione e sorprendentemente ci riusciranno, nonostante non siano del tutto consapevoli di quello in cui si stanno cacciando.
A raccontare questa storia, più di quarant’anni dopo, ci pensa Danny Boyle, il regista premio Oscar che già aveva raccontato la vita di individui ai margini della società, gente senza speranze che però può vantare una storia straordinaria fatta d’amore, d’amicizia, di denaro e di violenza. Un’altra storia estrema. In effetti si potrebbe disquisire parecchio su come la regia di Boyle abbia reso indimenticabili i protagonisti di Trainspotting e, sotto molti punti di vista, sia perfettamente riconoscibile anche in Pistol. Grazie a una fotografia ruvida e retrò, Londra è cupa e umida, popolata da ratti, palazzi fatiscenti e locali notturni. Ci sono storie crude e violente che strisciano senza essere viste fra le moquette del salotto buono e il telegiornale della sera. C’è una forma di ipocrisia silenziosa in cui tutti si nascondono pur di non dover guardare in faccia il disagio sociale che come una voragine si sta ingoiando il futuro dei più giovani. Giovani che riescono a tenersi in piedi solo con l’aiuto reciproco, come due amici che ubriachi si sostengono a vicenda per non schiantarsi al suolo. La famiglia di provenienza svanisce perché ancora ancorata a valori in cui le nuove generazioni non si riconoscono più. Le nuove famiglie sono amici e conoscenti di cui ci si circonda ogni giorno, tutto il giorno e con i quali si condivide tutto. In perfetto stile Boyle quel tutto comprende affetto, relazioni, sesso, divertimento, sostegno, segreti, siringhe, cibo, materassi, sigarette, alcol e confessioni. Gli amici sono la salvezza e in egual misura la rovina.
Pistol ondeggia fra momenti crudi e ruvidi ad altri più leggeri e divertenti perché in fondo i protagonisti di questa storia sono dei ragazzi, poco più che ventenni con molta voglia di divertirsi e una certa ingenuità. E a proposito di protagonisti va detto che il cast è riuscito nell’intento di raccontare questa storia senza renderla stereotipata. Quando si raccontano le vite di persone realmente esistite e così carismatiche da essere state idealizzate dal pubblico, il rischio di esagerare è reale. Sid Vicious e Johnny Rotten, sono icone del loro tempo, che in questa serie non vengono scimmiottate, ma omaggiate nel ricordo di quello che hanno significato. Per questo è un po’ un peccato che invece le figure femminili di Pistol rimangano relegate a corollario: Vivienne Westwood sembra spesso in balia di un marito molto più furbo che ispirato, Chrissie Hynde rimane incapace di trovare la propria voce fino alla fine della serie e Nancy rimane per sempre legata a quell’immaginario che la vede la versione punk di Yoko Ono. Straordinario invece il personaggio di McLaren (Thomas Brodie-Sangster) che si propone come salvatore e carnefice dei Sex Pistols, sfruttandone l’ingenuità, ma regalando loro la possibilità di essere per sempre qualcuno.
Forse il fatto che la serie sia composta da soli sei episodi, costringe la storia ad andare un po’ veloce sotto molti punti di vista (a risentirne più di tutto è proprio la relazione fra Sid e Nancy), ma nonostante questo aspetto, lo spirito punk e reazionario di quegli anni viene perfettamente raccontato: immagini di repertorio che si alternano a scene ricostruite in maniera precisa e minuziosa. Aneddoti realmente accaduti che non risparmiano il loro lato più cupo e sofferente ( l’episodio che racconta la nascita della canzone Bodies sembra in gran parte aderente alla realtà) si alternano a ricostruzioni su come potrebbero essere effettivamente andate certe cose. Il tutto condito da una colonna sonora meravigliosa che oltre ovviamente ai Sex Pistols omaggia altri grandi della musica fra cui David Bowie, i Pink Floyd e gli Who.
Il finale forse poteva essere più coraggioso: in fondo sapevamo dall’inizio che la tournée dei Sex Pistols negli Stati Uniti avrebbe messo la parola fine alla band e la fine della band coincide anche con la fine della vita di Sid Vicious. Tuttavia la serie non finisce così, finisce con un (raro) ricordo di armonia fra i membri del gruppo durante un concerto di Natale, un evento di beneficenza per ragazzini. La serie sceglie di concludersi con un ricordo felice, come a voler rendere un po’ più mansueti i suoi protagonisti, addolcire un movimento fatto di spille da balia e volumi assordanti, ma allo spettatore rimangono invece aggrappate addosso moltissime sensazioni, anche tristi e dolorose, legate alla vita di queste persone che dentro avevano qualcosa di speciale, ma che non sono state capace di gestirlo.
Il vero Johnny Lydon non ha apprezzato l’omaggio che Pistol dà alla sua storia ed è un vero peccato perché da questa serie tv emerge abbastanza chiaramente che il suo “No Future” fosse vero, reale, dolorosamente sentito. Non c’è futuro per una band composta da emarginati, una band che nessuna etichetta discografica voleva mettere sotto contratto e che quindi non poteva incidere dischi. Una band bandita da ogni locale del Regno Unito e che veniva sistematicamente censurata alla radio. Una band che però è riuscita comunque ad arrivare al primo posto nelle classifiche inglesi cambiando per sempre il futuro di più di qualcuno. Il futuro che non c’era, ma che poi è arrivato.