–“Che facciamo adesso?”
– “Ricominciamo a correre”
La domanda è di Fernando Sucre. Un bravo ragazzo, in fondo, capitato lì quasi per sbaglio, ad affrontare qualcosa di molto più grande di lui. La risposta è di Micheal Scofield: capitato lì per scelta, per provare a sconfiggere qualcosa di molto più grande di lui. Più grande di tutti loro. Siamo alla fine dell’ultima puntata della prima stagione di Prison Break, siamo alla fine di quello che è il viaggio in formato singola stagione più frenetico nella storia della televisione. I 5 fuggitivi rimasti insieme, di quelli che erano i celeberrimi 8 di Fox River, hanno appena realizzato che l’aereo che li avrebbe dovuti trasportare verso la libertà è appena volato via sotto i loro increduli ed esausti occhi. Le sirene della polizia, arrivata in massa alle loro calcagna, sono sempre più vicine, sempre più sinistramente e pericolosamente vicine. Eppure, per un attimo, tutto si ferma. In quegli interminabili secondi che separano i due eventi – la realizzazione di aver perso l’aereo tanto agognato, e la nuova sfrenata, disperata corsa verso la libertà – tutti gli evasi rimangono immobili. Nessuno si scompone del tutto, nessuno si fa prendere completamente dal panico, nessuno si muove. Fino a quella domanda di Sucre, che si fa portavoce anche di tutti gli altri: come sempre, sarebbe stato Micheal a decidere. Perchè quello lì sa sempre cosa fare. Perchè quello lì, come avrebbe detto suo fratello Lincoln qualche stagione più tardi, ha un piano anche per andare a pisciare.
Il contesto di fiducia creato intorno a se’ da Scofield ha pochi paragoni. É riuscito a creare attorno alla sua figura una mistica aura di infallibilità, a riunire sotto la sua egida criminali di qualsiasi tipo di estrazione: dal capo-mafia al ladruncolo da supermercato. Tutti pendono dalle sue labbra, tutti credono intimamente che qualsiasi cosa esca dalla bocca di Micheal possa trasformarsi in realtà assoluta e incontrovertibile. Così, grazie a questa fiducia naturale che gli è stata concessa, è nata la perfezione della fuga da Fox River. Non è solo perchè aveva tutta la planimetria della prigione tatuata addosso. Non è solo perchè se vai da gente che deve scontare l’ergastolo, o che ha necessità immediata di uscire di lì, allora quella crederà a qualsiasi cosa tu gli dica. C’è molto di più. É perchè Micheal Scofield è uno che ispira fiducia incondizionata. Che sia un genio lo si nota subito, ma la caratteristica principale per cui tutti si fidano di Micheal è che è un tipo evidentemente freddo e disinteressato. Se ti dice una cosa è perchè crede di poterla fare sul serio, di più: è perchè è sostanzialmente certo di poterla realizzare e portare a termine. Non ha bisogno di convincerti in nessun modo, e non gli interessa farlo nei modi canonici. Di fatto, Scofield è l’esatto opposto di un affabulatore. Semplicemente, quando senti parlare Micheal Scofield hai la percezione che non esista singola cosa proveniente dalla sua bocca che non sia effettivamente in grado di poter fare. Micheal è un tipo molto concreto, uno che pianifica qualsiasi cosa. Fidarsi e affidarsi a uno così non è semplicemente un’opzione: è l’unica scelta possibile.
L’ultima puntata della prima stagione di Prison Break è probabilmente la puntata più iconica della serie. L’ultima della quarta stagione è la più emozionante, quella dove un cerchio pieno di dolore e di speranza si chiude. Ma l’ultima della prima stagione è senza dubbio la più iconica. Anche se sarebbe meglio ampliare il raggio d’azione e dire che le ultime due puntate della prima stagione, che possono considerarsi come un pezzo unico, siano le più entusiasmanti, frenetiche e coinvolgenti in assoluto. Se, appunto, nel finale della quarta stagione il cerchio si chiude, nel finale della prima il cerchio si apre. Fox River era solo l’inizio: ce ne accorgeremo poi, in quel momento siamo troppo coinvolti da quel che stiamo vedendo per pensare a quel che succederà dopo. Eppure è la fine di un viaggio quasi a se’ stante, per quanto perfettamente connesso con tutto quello che ne seguirà. Ogni attimo, ogni maledettissimo frame del finale della prima stagione è vissuto da noi che guardiamo con la stessa concitazione con cui lo vivono i personaggi. É li che capisci di essere davanti a un’opera spettacolare. Perchè Prison Break è prima di tutto questo: un’opera spettacolare, nel senso più letterale del termine.
La costruzione del pathos della fuga in ogni suo dettaglio raggiunge il culmine alla fine della penultima puntata, quando vediamo uno dopo l’altro i fuggitivi arrampicarsi su quel filo sottile che devono attraversare per non finire a terra per sempre, e senza più nessuna seconda possibilità ad aspettarli. È una metafora esistenziale semplice ma incredibile: puoi fare tutto alla perfezione, puoi pianificare tutto in ogni minimo dettaglio e non sbagliare una virgola, ma basta un attimo per ribaltarti l’esistenza. Basta un errore all’Ultimo Miglio – che è anche il titolo della puntata conclusiva di questo primo capitolo – per vanificare tutti gli sforzi fatti in precedenza.
Micheal Scofield questo lo ha sempre saputo, ed è riuscito a trasmetterlo ai suoi compagni – alcuni sgraditi, obbligati – di fuga col carisma tipico di un leader che non ha mai bisogno di alzare la voce per farsi seguire. L’ultima puntata della prima stagione di Prison Break ci proietta nella fuga dopo la fuga, anticipando il dominante tema della persecuzione che caratterizzerà invece i capitoli successivi della serie. Tra scene per stomaci fortissimi – il taglio della mano di un John Abruzzi mai riuscito a perdonare T-Bag, il personaggio più riprovevole dell’intera saga e al contempo uno dei più carismatici e meglio caratterizzati, merito anche della sublime prova attoriale di Robert Knepper – e momenti di poetica tenerezza, come quando in riva al fiume C-Note chiede a Micheal se il Messico sia il posto giusto per avere una famiglia, per portare la sua famiglia, l’ultima puntata della prima stagione più travolgente nella storia delle serie televisive scorre a ritmi incessanti, come sempre: quando guardi Prison Break, hai sempre la sensazione che di 40 minuti ne siano passati sì e no 10.
E si arriva quindi a quel momento. Si arriva quel finale che darà il via a una serie di eventi che continueranno a tenerci incollati allo schermo: da qui in avanti Prison Break cambierà pur rimanendo fedele a se’ stessa, evolvendosi senza mai perdere di vista i suoi obiettivi (revival escluso). Ma una parte di noi è rimasta lì, a quel Ricominciamo a correre” in cui c’è tutto: speranza, disperazione, timore che tutto possa crollare da un momento all’altro e intima convinzione che alla fine, non si sa come, andrà tutto bene.