Dicembre non vive solo delle solite commedie natalizie piene di buoni sentimenti e, in effetti, a dominare in questo periodo nel catalogo Netflix è l’ispanico Quando Dio imparò a scrivere, thriller psicologico ambientato a cavallo tra gli anni 70 e 80 dove un’investigatrice privata si finge pazza per farsi internare in un ospedale psichiatrico e indagare su un apparente suicidio. E si sa, in film di questo genere, così attraenti per noi dato il tema sempre affascinante e complesso delle malattie mentali, il fulcro di ogni cosa è proprio il personaggio principale. L’intensa Bárbara Lennie – candidata ai Premi Goya 2023 per questo ruolo – si cala perfettamente nei panni di Alice Gould, facendo suo un personaggio complesso, intelligente e impossibile da sorprendere, eppure dotato di sentimento e preoccupazioni che l’attrice riesce a trasmetterci pienamente. Il fatto poi che la storia sia narrata principalmente dal suo punto di vista ci porta a cambiare opinione ogni qualvolta un plot twist ribalta le cose.
Se, infatti, da un lato veniamo convinti dalle parole di questa donna ragionevole e dalla lingua tagliente, dall’altra la non-conferma della sua versione da parte del primario dell’ospedale insinua più di un dubbio nella nostra mente. Insomma, lei si porta comunque dietro una diagnosi di paranoia e il dottore che l’ha mandata nel manicomio la descrive come:
“Un’astuta manipolatrice, capace di mentire su tutto”.
In Alice scorgiamo delle similitudini con la Halle Barry di Gothika o l’Angelina Jolie di Changeling, perché sono tutte e tre donne rinchiuse in un istituto mentale perché non credute. E il suo entrare in manicomio da sana, frantumarne il delicato equilibrio per poi impazzire a sua volta – ha infatti un crollo nell’ospedale – ricorda troppo da vicino il Jack Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Anche se il riferimento più evidente, oltre al romanzo da cui è tratto il film Netflix, è chiaramente Shutter Island, per quanto non abbia la stessa raffinatezza dell’opera di Scorsese. Insomma, Teddy Daniels e Alice Gould hanno più di un punto di contatto, come il lavoro, l’indagine e l’apparente sanità mentale. E chi l’ha visto in un certo senso aveva già capito dove voleva andare a parare Quando Dio imparò a scrivere. Un po’ come successe al personaggio di Leonardo DiCaprio, Alice si trova dunque a lottare su due fronti: la risoluzione dell’omicidio del giovane Del Olmo e il difendere la sua sanità mentale.
Dunque, allo stesso modo di Shutter Island, anche in Quando Dio imparò a scrivere le cose sono più complesse del previsto.
La parte crime del film Netflix ci permette di ragionare sul concetto di salute mentale non solo della protagonista, ma anche dei pazienti dell’istituto, scandagliando quelle fragili personalità spesso colpite da traumi insanabili. Quelle persone descritte così dal dottor Alvar:
“Se Dio ci ha creato come una calligrafia perfetta, i pazienti che finiscono qui sono come le linee storte di quando Dio imparò a scrivere”.
Emergono le tipiche tematiche mostrate da sempre in questo genere cinematografico, come il mutismo, l’intelligenza mascherata da follia o le compulsioni. Nel manicomio troviamo figure di ogni tipo, che tendono alla caricatura senza troppo approfondimento: dai nani ai giganti, passando dai classici gemelli nati nell’istituto al più originale paziente che soffre di idrofobia. Inoltre, per qualcuno può essere fonte di fastidio l’inserimento di ogni cliché tipico dei thriller psicologici: la psicanalisi da quattro soldi, le sequenze oniriche, gli scambi d’identità o il solito spettacolare elettroshock, tanto per nominarne alcuni.
In più, se non venisse mostrato quando è ambientato il film Netflix, gli anni Ottanta non emergerebbero da quella fotografia calda e da quelle ambientazioni piuttosto addolcite. Eccetto la gabbia, infatti, non vediamo le classiche stanzone bianche e scarne dei manicomi, le spaventose camicie di forza, i pazienti più gravi e malandati. Insomma, mancano quegli elementi inquietanti che gli amanti dei thriller psicologici cercano in questo genere. Gli stessi che sono presenti in massa in due opere esemplificative e già citate, ovvero Shutter Island e Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Quello che però conquista e spiazza di questo film su Netflix, facendoci chiudere un occhio sui troppi cliché, è il ritmo tensivo della trama e i suoi mille stravolgimenti.
In quei corridoi si sviluppa un intreccio a due linee narrative che capovolge spesso il racconto e che, pieno di bugie e inganni, ci fa più volte mettere in discussione ciò che stiamo vedendo, anche grazie al sapiente uso dei primi piani dei personaggi e di dettagli microscopici che solo lo spettatore più attento – e avvezzo al genere – può cogliere. Soltanto chi di noi riesce a leggere tra le righe può arrivare alla verità e Quando Dio imparò a scrivere gioca proprio su questo per tenere alto il nostro coinvolgimento, rendendo tutti i partecipanti alla gara delle pedine della sua scacchiera. Ed è quest’ambiguità a essere un altro dei punti di forza del film di Netflix.
Bravissimo è il regista, Oriol Paulo, capace di trasferire sullo schermo la suspense del romanzo, nonostante una durata fin troppo eccessiva (anche se Quando Dio imparò a scrivere scorre piuttosto bene). Abilissimo nello sconvolgere le convenzioni narrative e nel vivificare la tensione con i numerosi colpi di scena, costruisce una trama a specchio, dilata lo spazio del manicomio e della narrazione, posticipa il più possibile lo scioglimento dell’intreccio, ci inganna con quegli apparenti flashback che, in realtà, diventano dei flashforward che si ricongiungeranno alla linea di Alice quando tenta di evadere dall’istituto con l’aiuto degli altri pazienti.
E si arriva, poi, al finale di un film che, nonostante abbia qualche forzatura di troppo e sia in molti tratti piuttosto prevedibile, riesce a tenerci incollati allo schermo per tutta la sua durata. Tutte le prove in Quando Dio imparò a scrivere sembrano dare ragione ad Alice, avvalorando la sua teoria del complotto del marito (aiutato da Alvar e dal presunto Del Olmo) che l’ha rinchiusa per accaparrarsi il suo denaro. Però l’arrivo del dottor Donadìo – che nei ricordi della donna è il falso Del Olmo – scompiglia nuovamente le carte. Alice allora ha davvero creato una versione fittizia degli eventi perché non riusciva a tollerare di aver quasi ucciso Heliodoro? Se è così, allora il fatto che il marito abbia svuotato il suo conto non è più una prova rilevante. Ci sono tante versioni della stessa storia che, però, hanno un punto in comune: sembrano essere manipolate per adattarle a ciò che conviene ad Alice in quel momento. Ma Donadìo potrebbe semplicemente essere un complice perché, per quanto Alice sia confusa, non viene confermato né smentito che lei lo conosca. Allora, come successe per Shutter Island, l’ultima parola viene lasciata a noi con una domanda nascosta: chi è davvero il pazzo in Quando Dio imparò a scrivere?