Questa è Storia vera.
Questa storia, quasi.
È con queste parole che ci portano in un contesto reale e contemporaneamente fittizio che ha inizio Rapiniamo il Duce, film storico presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma di quest’anno e distribuito da Netflix a partire dal 26 ottobre. Un film che è continuamente in bilico tra essere un dramma e una commedia e che, in questo suo difficile equilibrio, funziona a meraviglia.
Il regista Renato De Maria ci prende per mano e ci porta dritti nella Milano dell’aprile 1945.
Mancano pochi giorni alla fine della Seconda Guerra Mondiale ed è un chiaro momento di fibrillazione: gli alti ranghi del regime fascista sanno di essere con le spalle al muro e pensano a un modo per scappare e farla franca, mentre i partigiani continuano a fare di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote e gli italiani sono ormai allo stremo delle forze. È in questo contesto che prende vita la storia di Pietro, meglio conosciuto come Isola. Isola è un ladro, uno di quelli a cui piace lavorare da solo ma che in realtà ha alle spalle una strana famiglia, non di sangue ma di scelta. Pur essendo molto giovane ci sa davvero fare, ed è ormai rimasto l’unico a gestire il mercato nero in città, quello fatto di armi, munizioni, esplosivi rivenduti e usati anche e soprattutto dalla Resistenza contro il regime. La sua strana famiglia va avanti con difficoltà, non è semplice mettere a segno grandi colpi quando si è perseguitati dai fascisti e i soldi cominciano a scarseggiare.
Eppure un giorno succede qualcosa che cambia le carte in tavola: Marcello, colui che ha praticamente cresciuto Pietro dopo la morte di suo padre a Fiume, intercetta un messaggio in codice diretto al gerarca fascista Achille Borsalino nel quale si parla dell’imminente fuga del Duce e dei suoi fedelissimi. Mussolini, Claretta Petacci e tutti i gerarchi di alto livello sono pronti a scappare in Svizzera con il tesoro del Duce, un’incredibile quantità di oro e gioielli accumulati dal regime grazie anche alle donazioni effettuate dagli italiani per finanziare lo sforzo bellico. Comincia così l’ideazione del colpo del secolo: rapinare il Duce. Un colpo che, come si può immaginare senza troppo sforzo, non è dei più semplici, esigendo l’ingresso nella zona nera, la zona più controllata della città dalla quale è praticamente impossibile entrare o uscire senza essere autorizzati.
Isola e i suoi mettono in piedi una banda fatta di persone che sono outsider del sistema almeno tanto quanto loro. E ovviamente le cose per questa squadra fatta di persone tanto diverse quanto unite da ideali comuni sono tutt’altro che semplici, sia per la difficoltà di organizzare un colpo del genere in un contesto come quello, sia perché l’amore ci si mette di mezzo. Pietro e Borsalino non sono solo dai due lati opposti della storia, ma sono anche innamorati della stessa donna, Gianna (conosciuta col suo nome d’arte Yvonne), cosa che li rende doppiamente rivali e posiziona il loro scontro su ben più di un unico piano. E si sa, quando c’è in gioco l’amore anche l’oro del Duce può avere il valore di una manciata di spiccioli.
Rapiniamo il Duce porta sugli schermi una storia forse non reale, ma sicuramente realistica.
Una storia alla quale dà vita una squadra di attori tanto talentuosa quanto variegata. Abbiamo due tra i più apprezzati giovani talenti del cinema italiano, Pietro Castellitto e Matilda De Angelis, a fare da protagonisti a un racconto di guerra e d’amore che, a quanto pare, l’amore ha contribuito anche a farglielo trovare. E quale tesoro è più grande di questo. Ma abbiamo anche due veterani come Filippo Timi e Isabella Ferrari, e l’inaspettato Maccio Capatonda, che con la sua amara ironia mette la ciliegina su una torta già ottima. Maccio è la personificazione della visione di un regista che fa del tocco tragicomico la peculiarità del suo racconto rendendolo, un po’ come ha fatto anche Roberto Benigni con il suo La vita è bella, un prodotto diverso ma anche estremamente comprensibile.
Come si può raccontare una storia nella Storia? Come si fa a portare su uno schermo vicende di vita – che siano reali o meno poco importa – contestualizzate in uno dei periodi più complessi e forse anche difficili da accettare della Storia con la S maiuscola? Lo si può fare in modi diversi, che a quanto pare pur essendo totalmente opposti tra loro non sono mutuamente esclusivi. La crudezza di un contesto come quello della guerra può concedere anche il suo spazio all’ironia nelle storie di persone che in quel contesto devono pur vivere. Guardare Rapiniamo il Duce significa essere perennemente in bilico tra realtà e finzione narrativa, tra sorriso e angoscia. Un’ora e mezza di incertezza che però è nulla rispetto a quella che ha provato chi la Seconda Guerra Mondiale l’ha vissuta sulla propria pelle. Quella guerra come tutte le altre.
Ogni personaggio del film fa la sua parte per cercare di sopravvivere in un mondo in cui è difficile avere un po’ di tregua. Un mondo in cui forse l’unico modo per non limitarsi a sopravvivere, e per provare a vivere davvero, è cercare di sovvertire il sistema, di essere più furbi della Storia. E quali armi migliori per farlo dell’ironia e dell’amore, oltre che ben più di un pizzico di sano coraggio? E in un film come Rapiniamo il Duce in cui ognuno ha il suo ruolo ben preciso, quello di Pietro e Gianna è anche ricordare ciò che alla fine è davvero importante, ciò che resta al di là dei piani e dell’oro. Ciò che resta anche al di là della guerra, una volta finita.