Attenzione, posticipare la lettura se si vogliono evitare spoiler sulla nuova serie comedy su Disney+, Reboot.
Andata in onda su Hulu a metà settembre, in Italia Reboot è disponibile da pochi giorni su Disney+. E diciamolo subito: questa comedy non è per niente male. Anzi, insieme ad Abbott Elementary è probabilmente fra le serie più divertenti che sono state aggiunte nell’ultimo anno sulla piattaforma. Nata dall’estro creativo di Steven Levitan, già autore di Modern Family, Reboot può vantare un cast notevole, fra cui brilla sicuramente Keegan-Michael Kay, ma anche Judy Greer, Paul Reiser e, forse un po’ a sorpresa, Johnny Knoxville.
L’idea di base è molto carina: cosa succederebbe se Hulu ci raccontasse cosa succede negli studi di Hulu mentre viene girato il reboot di un vecchio successo di Hulu?
Reboot gioca quindi su due linee narrative che si intrecciano fra loro: da una parte c’è il meta-racconto di una produzione televisiva al lavoro, dall’altra ci sono le vicende personali di cast e autori. Ovviamente i due filoni si influenzeranno a vicenda, con un risultato divertente (a tratti anche molto divertente), ma che non rinuncia nemmeno a un livello un po’ più profondo e umanamente significativo con vizi, debolezze e virtù di persone, che come è frequente, riversano la loro vita privata nel lavoro e viceversa.
È decisamente indovinata la scelta di Hulu di ironizzare sulla recente ondata di nostalgia che pare abbia investito il mondo televisivo e che, di conseguenza, spinge i produttori a sfornare reboot dei maggiori successi del passato, sperando di sfruttarne (o sarebbe meglio dire, in qualche caso, spremerne) per l’ennesima volta il successo. Ecco quindi che una fittizia Hulu decide di accettare la proposta di un’autrice emergente e lanciare il reboot di Step Up Right, una vecchia e fortunata sit-com dell’emittente, andata in onda nei primi anni duemila (a questo proposito è intelligente anche il dettaglio di intitolare ciascuna puntata con il nome di un telefilm famoso). Viene quindi riunito il cast originale che accetta in blocco di partecipare alla serie, ognuno per un motivo diverso. Ogni personaggio deve quindi fare i conti con la versione invecchiata di se stesso e, nel caso di Keegan-Michael Kay, anche con tutto quello che aveva lasciato in sospeso ai tempi della serie originale.
La serie è una comedy generalmente riuscita. Il cast funziona e non solo nel caso di Keegan-Michael Kay che aveva già dato prova in Compagni di Università e ancora di più in Schmigadoon! di sapersi portare a casa un ruolo da protagonista con molte più sfumature di quello che si potrebbe pensare, ma, alla faccia di un leggero scetticismo iniziale, anche per quanto riguarda Johnny Knoxville che, bisogna dirlo, risulta più che credibile nella sua parte: divertente e leggermente sopra le righe, forse un po’ meno Disney di quello che è nell’immaginario comune. In altre parole adattissima a lui.
Il senso dell’umorismo è moderno e vivace, d’altra parte è proprio a Levitan che dobbiamo alcune delle massime più divertenti di Phil Dunphy, ma Reboot si prende in giro e prende in giro, facendoci ridere di temi attualissimi, però, al tempo stesso, usando battute che sono quasi dei classici delle sit-com. Ridiamo di noi stessi e delle nostre manie, ma al tempo stesso ridiamo anche per quello che ci faceva ridere in un altro tempo e che adesso ci sembra da boomer, ma che in qualche caso, anche se non lo ammetteremmo mai, ancora ci diverte.
Funziona anche il delicato equilibrio fra momenti seri e momenti più frivoli, cosa che Levitan aveva già imparato a maneggiare con cura soprattutto in qualità di sceneggiatore e produttore di Frasier. Questa dinamica, che rende una comedy degna di questo nome, se non viene calibrata a dovere finisce per compromettere il risultato finale dell’intera serie. Sicuramente lo scopo di Reboot è quello di divertire, ma in più di un’occasione butta lì una battuta o una scena che in qualche modo ha un retrogusto amaro. Per esempio quando Zack, la baby star ormai (apparentemente) cresciuta di Step Up Right, cerca di giocare una partita di basket con dei ragazzini affermando di essere stato sempre troppo indaffarato con il lavoro da piccolo e di non aver avuto mai tempo di giocare. Oppure quando Clay sostiene di essere felice di avere la sit-com che lo tiene impegnato durante il giorno o gli riuscirebbe difficile stare lontano dalle sue debolezze o ancora, la tensione emotiva che lega Reed a Bree da tempi immemori e che sembra essere una fiamma mai sopita.
Qualche volta forse Reboot tende a essere un po’ ridondante nel raccontare il mondo delle serie, ma bisogna anche dire che molto dello spazio lasciato alla descrizione del dietro le quinte di un prodotto televisivo è finalizzato alla comprensione del rapporto che si crea fra tutti gli addetti ai lavori. Siano essi padre e figlia, come nel caso eccezionale di Hannah e Gordon, sia quando riguardano autori e cast, magari appartenenti a generazioni molto diverse. Tutto è propedeutico per rendere comprensibile quanto possa essere difficile far funzionare le individualità di ciascuno che, nel mettere in campo il proprio lavoro, le proprie capacità e le proprie idee, mostra una parte di sé fragile e vulnerabile che solo in un contesto positivo e accogliente può essere espressa e risultare efficace in un processo creativo.
Le dinamiche familiari, tanto care a Levitan, sembrano riproporsi in maniera meno esplicita, ma altrettanto significativa fra queste persone, che devono stare assieme per forza, ma finiscono per non poter fare a meno l’una dell’altra. È quasi paradossale come la finta famiglia di Step Up Right, diventi quasi una famiglia vera quando i riflettori si spengono. La serie sembra suggerirci che c’è ancora vita nei reboot, qualcosa di originale può ancora uscire dal riproporre modalità e personaggi già visti in un’altra epoca, basta trovare la chiave giusta.
Il finale è aperto su qualche nuova possibile complicazione che non vediamo l’ora di vedere, perché questi 8 episodi, da circa mezz’ora ciascuno, volano via in un soffio leggero, come in ogni comedy che si rispetti.