Se Black Mirror e il movimento #MeToo avessero un bambino, questo sarebbe Roar. Basato sul libro di Cecilia Ahern, Roar è una serie tv antologica divisa in otto capitolo. Otto favole oscure che si concentrano sull’esperienza femminile, nel modo in cui gli altri si approcciano alle donne e come queste stesse si vedono. Sono quindi storie distinte, in alcun modo collegate le une alle altre, e ognuna delle quali prende in esame preconcetti noti e onnipresenti, nel tentativo di sviscerarli attraverso metafore crude. Si passa quindi dal razzismo alla maternità, dalla mascolinità tossica all’abuso toccando perfino quello stereotipo della trophy wife spesso trattato con un’alzata di spalle.
A onor del vero, nonostante il cast ultra stellare presente, Roar riesce a colpire il bersaglio solo marginalmente. Se, infatti, le storie in sé e per sé risultano intriganti e ben interpretate, nel quadro generale finiscono per non rimanere impresse nella memoria collettiva e quindi a non far passare completamente il loro messaggio. A parte tre eccezioni, che vedremo tra poco, i restanti sei episodi si riducono a occasioni sprecate, forti di una bella idea di partenza ma che rimane, appunto, solo un’idea.
ATTENZIONE SPOILER! Se siete interessati alla recensione vi consigliamo di tornare dopo aver visto tutti e otto gli episodi di Roar.
Dunque, cerchiamo di capire bene cosa ha funzionato e cosa no all’interno di Roar.
In mezzo a otto storie molto ambiziose, solo tre riescono a colpire davvero lo spettatore e il motivo non risiede nelle rispettive tematiche affrontate ma nel modo in cui vengono affrontate. L’episodio 6 intitolato “The Woman Who Solved Her Own Murder” vede protagonista Alison Brie, sotto forma di fantasma, costretta a risolvere da solo il proprio omicidio dato che nessuno sembra affrontarlo nel modo corretto. Troppo impegnati a ricalcare stereotipi mascolini di detective tormentati, i due agenti che dovrebbero occuparsi del caso sono di fatto più concentrati sul loro stessi che sul femminicidio avvenuto. Una puntata cruda, amara che fa davvero riflettere e sorridere mestamente quando in realtà si vorrebbe solo urlare e prendere a schiaffi la faccia di Hugh Dancy.
Atro episodio ben riuscito è sicuramente il numero 7, “The Woman Who Was Fed By a Duck”. La protagonista stavolta è Merritt Wever, donna single il cui sogno è quello di diventare dottore. Un giorno al parco, incontra una papera e scopre di poterla parlare con lui. I due iniziano a frequentarsi, tanto che la donna si invaghisce dell’animale e lo porta a casa con sé. Il rapporto è alquanto idilliaco fino a che non si trasforma in un abuso emotivo continuo, dal quale la nostra protagonista non sa più come uscire. Usando l’espediente della papera, Roar riesce a delineare in maniera nuova ma precisa quei rapporti tossici che iniziano come una favole ma si rivelano il peggiore degli incubi. Si tratta dell’abuso emotivo che scava dentro di noi, creando una fossa dalla quale sembra impossibile riemergere.
Nel terzo episodio intitolato “The Woman Who Was Kept on a Shelf”, Betty Gilpin veste i ruoli di una donna cresciuta con la convinzione di dover essere amata e venerata per poter essere davvero importante nel mondo. Da piccola star di concorsi di bellezza diventa quindi una modella e, infine, una trophy wife. Nel senso letterale del termine. Il marito, infatti, giura di adorarla per sempre se solo lei acconsentirà a rimanere seduta sopra una mensola. Vittima della sua stessa vanità, la nostra protagonista acconsente e inizia così a vivere paradossalmente sopra la mensola costruita apposta per lei.
Sono questi i tre episodi che emergono maggiormente, sottraendosi a una narrazione generalmente inespressiva e poco convincente dove sono soprattutto “The Girl Who Loved Horses” e “The Woman Who Returned Her Husband” a toccare il fondo.
Neppure il secondo episodio con protagonista Nicole Kidman, “The Woman Who Ate Photographs”, riesce a salvarsi e il motivo è in particolare uno. Le storie raccontate negli otto episodi di Roar sono tutte estremamente vere, feroci e brutali ma finiscono invariabilmente con un lieto fine. La risoluzione positiva finisce per il collidere sia con il tono amaro della puntata in sé sia con la natura stessa dello show. Contrariamente a Black Mirror che, proprio nel finale senza speranza, trova l’apice della sua poetica, Roar opta per un lieto fine che ci dà speranza ma allo stesso tempo rovina quanto visto nei precedenti quaranta minuti.
Oltre al problema sopra citato ne esiste poi anche un altro. Nel tentativo di voler dare voce alle donne, nel raccontare stereotipi che le riguardano in prima persona, la serie tv finisce per diventare troppo costruita. Gli episodi non sono più metafore distopiche e/o grottesche di problemi veri e serissimi ma quasi parossistiche analisi cliniche che si concludono peggio di una favola Disney. Le idee ci sono, la mise en scène è pessima. Alcuni episodi, come il settimo e il primo, compiono inoltre errori di tipo culturale proponendosi come difensori dei diritti delle minoranze e finendo per cadere essi stessi nell’ovvio e nello stereotipo. Il settimo episodio intitolato “The Woman Who Returned Her Husband” racconta di una donna indiana che decide di “restituire” il marito da Walmart in cambio di un altro. Il primo, invece, dal titolo The Woman Who Disappeared” parla di una scrittrice afroamericana, autrice di un bestseller, arrivata a Los Angeles per discutere di un possibile adattamento cinematografico. Ma le sue idee non sono accolte dal gruppo di imprenditori bianchi che, improvvisamente non riescono più a sentirla né a vederla.
Il problema di Roar, come spesso capita, è che la narrazione è sacrificata in virtù di un politicamente corretto, di un progressismo vago e senza spessore che punta a voler toccare argomenti importanti ma senza sapere davvero come affrontarli. Le idee della serie non trovano sfogo perché si cerca, ad ogni costo, di salvare queste donne quando sarebbe stato molto più d’impatto se non si fossero salvate. Come accade nella vita vera.