Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 4×05 di Six Feet Under.
Sembra un episodio come un altro la 4×05 di Six Feet Under ma non lo è. Non può esserlo dal minuto in cui d’improvviso tutte le storie di contorno spariscono e rimane solo quella di David. Eppure inizia come ogni altro episodio. Inizia con la morte. Una morte banale che fa da viatico per il racconto del trasporto della salma da parte di David. La vita sembra proseguire come sempre, come nelle puntate precedenti, per tutti, con le difficoltà di ognuno, certo, ma difficoltà quotidiane, metabolizzate o in grado di essere metabolizzate nella giornata. Questo però solo per i primi venti minuti, quando, appunto, la puntata sembra proprio un episodio come un altro. Poi però inizia una spirale asfissiante e tragica alla quale noi come David partecipiamo in prima persona.
La 4×05 di Six Feet Under è un episodio che ti segna e segna David.
Non ha una ricomposizione conciliante nel finale, un’immagine esorcizzante, catartica. No, ci lascia con un’angoscia che ci portiamo dietro per molto tempo. E così sarà anche per David che le conseguenze di questo avvenimento le vivrà da qui fino alla fine della serie. La 4×05 è l’episodio in cui David Fisher incontra l’autostoppista, un ragazzo comune, almeno così pare. E tutto procede normalmente, mentre questa trama si affianca alle altre e si presenta quasi come un riempitivo. Mentre Nate, Brenda e Claire procedono con le loro vite, David sta semplicemente percorrendo una strada e dando un passaggio a un ragazzo rimasto senza benzina.
Poi tutto cambia e lo fa con una rapidità estrema, con un’escalation che non ci permette neanche di realizzare cosa stia succedendo. Le altre storie scompaiono, gli occhi della telecamera, e i nostri, sono solo per David. Six Feet Under ha tanti episodi coinvolgenti, episodi sicuramente più emozionanti e strazianti ma nessuno è opprimente come questa 4×05. Inizia il nostro incubo. Ci convinciamo che sia solo una rapina, che sì, sarà un’esperienza traumatica ma che tutto finirà presto, il tempo di un prelievo e ognuno per la propria strada. Ma non è così. Non ci rendiamo conto che è solo l’inizio di una storia che occuperà l’intera puntata.
Attraversiamo diversi gradi di paura e di speranza, ci alimentiamo costantemente della possibilità che sia finita, che ne stiamo uscendo e costantemente questa speranza viene a infrangersi davanti a un perverso gioco sadico che non sembra aver fine. Ci scopriamo in alcuni momenti affetti da una sindrome di Stoccolma che ci fa calare nella psiche del rapitore. Vogliamo trovare una spiegazione e allora crediamo totalmente alla storia del trauma del ragazzo, alla morte atroce del padre quando era solo un bambino. Salvo poi capire che è solo una menzogna, che è l’ennesimo scherzo che l’autostoppista ci ha propinato. L’aspetto più terribile è proprio questo: non sapere il perché.
Se lo chiede anche David, che ripete: “Dove la trovi la forza di comportarti così, devo capire“.
David deve capire, ha bisogno di capire. Per lui è una necessità, perché gli serve per razionalizzare quello che gli sta capitando. Ma l’autostoppista gode proprio in questo, sa che come un gatto col topo, il gioco sadico si alimenta attraverso questa insensatezza. Finge ora di avvicinarsi emotivamente, ora di arrabbiarsi con il rapito, ma è solo, appunto, finzione. È solo il gusto perverso di una mente malata che non si accontenta di ottenere il massimo da una rapina ma gode nel torturare una persona.
Il rapitore non inventa solo la storia del padre ma costantemente ci tiene in bilico tra la speranza e la disperazione facendo promesse immancabilmente infrante, ripetendo che sarà l’ultima cosa da fare, questa, prima che l’incubo finisca. Ma l’incubo non finisce: David è costretto a drogarsi e d’improvviso sembrano essere due sbandati sulla stessa lunghezza d’onda, pronti a dimenticare i rispettivi ruoli di rapitore e rapito. Ma non è così. Torna di lì a poco la violenza, il ricatto, la minaccia, la pistola puntata, mentre l’aguzzino si nutre del terrore senza risposta che legge negli occhi della sua vittima. È un mostro implacabile, esaltato nel momento in cui la situazione si fa più intensa, violenta, tragica. È un drogato che si cala una dose fatta di sadismo e volontà di controllo.
Per lui avere una vita in mano conta più dei soldi, più del crack, più del furgone. Six Feet Under ci cala in una realtà che toglie il fiato, che ci coinvolge e sconvolge in ogni minuto. Noi siamo David e David è noi. Speriamo e disperiamo con lui, soffriamo provando rabbia e pensando e ripensando a come poterne uscire. Malediciamo la mancanza di fermezza di David che una volta liberatosi dei legacci della corda e fatto cadere a terra il suo aguzzino non infierisce su di lui, non gli dà il colpo di grazia ma pensa solo a nascondersi. Eppure nel terrore che proviamo -noi con lui- ci rendiamo conto, forse, che anche noi non avremmo avuto la forza e lucidità di agire diversamente. Forse anche noi saremmo corsi via, lontano da quell’orrore, lontano dal pericolo, a rintanarci sperando e pregando che fosse la fine. Ma la fine non è.
Vediamo ancora una volta le nostre speranze infrangersi.
Guardiamo da lontano una volante della polizia che si allontana irrimediabilmente vanificando ogni nostro pensiero di salvezza. E ripiombiamo nell’orrore. Nell’illogicità di questo orrore, nella totale mancanza di senso. Ci ritroviamo a dover inseguire un cane sperando ancora una volta che sia l’ancora di salvezza. Non sappiamo neanche più perché continuiamo a sperare. Ci teniamo disperatamente aggrappati a qualcosa perché non abbiamo neanche la forza di lasciarci andare, di chiudere semplicemente gli occhi e sottrarci a questo gioco crudele.
Il nostro torturatore ci dice che se prendiamo quel cane saremo liberi, che tutto sarà finito. E ci crediamo. Non perché razionalmente siamo convinti che sia così ma perché non possiamo farne a meno, perché non possiamo accettare l’idea della morte. Mai come in questo episodio la morte ci investe in prima persona. Ci sono stati e ci saranno episodi che ci devasteranno, che ci metteranno a diretto contatto e confronto con la morte, con la morte di una persona cara come nella 5×09: quando abbiamo perso ogni misera speranza. Ma nella 4×05 Six Feet Under ci presenta crudelmente, per la prima e più straziante volta, l’idea della nostra di morte. Siamo in un costante point of view con vista morte e rispetto ad altre circostanze non siamo noi a dover vivere col peso della perdita di qualcun altro ma ci troviamo a dover accettare la nostra di dipartita.
Come si può vivere la morte senza morire? Esattamente in questo modo, guardando la morte in faccia, capendo di essere a un passo, a un click appena, a un grilletto pressato da quella morte. E allora alla fine cediamo, ormai senza forza. Ed è qui che il gioco deve necessariamente concludersi perché il gatto si diverte finché il topo si dimena, poi è solo noia. E allora il nostro boia prende la benzina e ci fa credere di essere pronto a darci fuoco, ci stuzzica per l’ennesima volta sperando di procurarsi una ciliegina di appagamento sadico.
E poi, quando è consumato anche quest’ultimo atto, quando giacciamo inerti e senza più forza vitale ci punta la pistola.
Chiudiamo gli occhi mentre la vita ci passa davanti, mentre ripensiamo alle persone care e a quello che perderemo. Più spaventosa della morte, che nel peggiore dei casi è un nulla, c’è la consapevolezza di stare per morire. Tremiamo e strizziamo gli occhi pensando che quanto più tesi e contratti riusciamo a essere tanto più potremo difenderci da quel proiettile. È un pensiero irrazionale, certo, ma inevitabile. Ci ripieghiamo su noi stessi mentre attendiamo il colpo, in un istante che dura un’eternità e che rimane per sempre impresso in noi. Poi semplicemente la morte si allontana. Il gioco perverso si è concluso e siamo ancora lì, tra sangue, escrementi, benzina e orrore.
Siamo vivi ma senza più vita. Vaghiamo come fantasmi lungo una strada qualunque, sotto shock, inebetiti da questo “tutto” che ci ha travolti. E siamo soli, terribilmente soli. Le macchine sfrecciano via, ci ignorano e ci evitano. Pensano di trovarsi di fronte a qualche sbandato, a un poco di buono. È l’ennesimo colpo inferto alla nostra anima, dopo tutto quello che abbiamo passato: siamo tenuti a distanza, quasi fossimo macchiati da un orrore col quale nessuno vuole avere a che fare. Solo una volante della polizia alla fine si ferma, più per sospetto che per portare aiuto.
Questa è la 4×05 di Six Feet Under. Un episodio sadico che ci tortura senza pietà, che ci costringe a guardare e a immedesimarci in ogni cosa. Una puntata che avrà conseguenze sulla psiche di David lunghe quanto tutta la serie. Non sentiamo che sia davvero finita perché gli strascichi ce li portiamo dietro a lungo. Quello che doveva essere solo un episodio è diventato una ferita aperta, il momento devastante in cui qualcosa irrimediabilmente, angosciosamente si rompe per sempre.