Six Feet Under ci aveva preparato fin dall’inizio alla morte. Era una vita che ci preparava alla morte. Avremmo dovuto essere pronti ma non lo siamo stati. Nella 5×09 di Six Feet Under abbiamo perso ogni misera speranza. È caduta anche la nostra ultima illusione, volata via nella falsa convinzione che la morte non ci avrebbe toccato, che saremmo sempre e solo stati noi a toccare la morte.
L’apertura di episodio ci aveva dato il suo agnello sacrificale, il dio della morte sembrava essere stato placato e noi ci sentivamo tranquilli. Anche stavolta -abbiamo pensato- la morte è toccata a qualcun altro. Per tutta la puntata abbiamo nutrito questa ferma, incrollabile convinzione. Ci siamo attenuti a un patto implicito che pensavamo fosse incrollabile.
Ci siamo illusi di poter controllare la morte, di saper interpretare i suoi meccanismi, il segreto codice che regola ogni giorno delle nostre vite.
È vero, a volte siamo stati convinti che a morire fosse qualcuno e poi, in realtà, la situazione si è ribaltata. Ma anche questo faceva parte del gioco. Anche questo era nei patti. Non poter capire fino all’ultimo, fino al momento appena precedente la sigla chi sarebbe stata la vera vittima. E ci sentivamo rassicurati: ridevamo del grottesco, pornografico realismo con cui la morte, goffa e assurda, si faceva largo. Poi tiravamo il fiato ed eravamo pronti per goderci l’episodio.
Il nostro patto. Il nostro patto con Six Feet Under. Il nostro patto con la morte. In questa 5×09 più che mai siamo stati felici dell’accordo sotteso perché ci siamo liberati di un peso che ci opprimeva: che il nostro Nate potesse davvero lasciarci. Abbiamo aspettato con ansia, angoscia, terrore e incredulità i titoli di testa e poi finalmente abbiamo tirato il fiato. A morire non è stato lui. Ora godiamoci l’episodio.
Va bene, forse non sarebbe stata facile, forse Nate non ne sarebbe uscito come nuovo ma ormai potevamo essere certi che ne sarebbe uscito, che tutto si sarebbe risolto. La morte era già stata placata con la sua vittima. E infatti Nathaniel si riprende, lo vediamo tornare cosciente, parlare, muoversi, interagire. Va tutto bene. Qualche acciacco, è naturale, non ha avuto un’anomalia vascolare da poco, ma niente che un po’ di fisioterapia della durata di qualche episodio non avrebbe risolto. Va tutto bene.
E in fondo questa 5×09 di Six Feet Under, sì, ha un suo senso, non è un semplice ramo morto della trama.
I sogni nello stato di incoscienza di Nate ci danno e danno al personaggio la contezza di cosa vuole davvero, di cosa sta cercando. Che sciocchi a pensare che sarebbe morto. Lui è il protagonista, è l’occhio e lo specchio dello spettatore. Non sarebbe mai potuto morire. Ora per Nate e per noi si apre una nuova fase, sarà forse quella dell’agognata pace? Di quella stabilità che non è mai riuscito a portare nella sua vita? Sicuramente ci crediamo un po’ di più ora che lo stato di premorte gli ha dato l’immagine più autentica dei suoi desideri. Una famiglia, una donna -Maggie- dolce e solare al suo fianco, fedele e semplice. Qualcuno da amare. Qualcuno con cui non dover fare la guerra ma trascorrere mesi, anni sereni.
Ecco, la percepiamo noi e la percepisce Nate, quella pace. Ce l’ha nel chiudere con Brenda, nello stringere a sé Maggie, nel professarle segretamente, implicitamente ma con immenso trasporto il suo eterno amore. L’episodio può chiudersi, l’immagine può stringersi su un momento di serenità con David e Nate fianco a fianco, provati ma sereni nell’assistere a un documentario sui pinguini. Bell’episodio, bello sviluppo. Ma qualcosa non va.
Ci accorgiamo che la telecamera stringe sì, ma non su entrambi. Solo su Nate. Nate dorme ora, ha gli occhi chiusi. Un flash, gli occhi si riaprono ma non è più in questo mondo. Sta sognando. Non capiamo bene il significato di questo momento onirico. C’è David, ma è un David molto diverso. Libero, rilassato, lontano dalle preoccupazioni, dalle tensioni della vita, dai suoi timori e dolori. C’è il padre di entrambi, quel Nathaniel con cui Nate condivide il nome (solo quello? Sì, sì, solo quello). Ma è tutto strano, tutto sopra le righe, tutto grottesco. E a questo punto un brivido ci corre sulla schiena.
Quel senso di grottesco, già.
Ci sembra di averlo già visto quel senso di grottesco in Six Feet Under. Sì, ogni giorno, in ogni episodio. L’abbiamo visto, l’abbiamo visto. Ma dove? Non ricordiamo ma siamo tristi e appesantiti. Non ricordiamo o non vogliamo ricordare. Perché questa sensazione? Vediamo il mare. È un mare solo leggermente increspato, c’è sole, tanto sole e calore. Ma non ci dà un senso pieno di serenità. Il cielo, l’atmosfera, quello che ci circonda è ambrato, è la golden hour, ora ce ne rendiamo conto: il momento che precede il tramonto, la luce del pomeriggio, quella dorata e soporifera che anticipa il buio. Siamo pietrificati.
Con un improvviso stacco che sentiamo dentro di noi, non ci riconosciamo più in Nate. “Io mi butto“. Quando sceglie di tuffarsi in quell’immenso mare in cui il naufragare sembra così dolce noi non vogliamo seguirlo. Non siamo più lui: siamo sempre stati lui e ora non più, non vogliamo. Lo guardiamo da lontano mentre rifiutiamo di tuffarci, mentre ci preoccupiamo per lui. Siamo diventati David che grida “No, non fare lo stupido!“. Nostro padre lo fomenta, gli augura buon bagno e di colpo eccoci, quando domanda: “E tu perché non ti tuffi?“, eccoci lì. “Perché non mi va“, rispondiamo. Non capiamo ancora del tutto, non vogliamo capire. Perché adesso siamo diventati David? Perché non possiamo più identificarci in Nate?
Ed ecco la risposta. Non può essere vero. Ma lo è. Siamo morti. O almeno lo è una parte di noi, quella che ha deciso di tuffarsi, di annegare nell’infinito in cui si perde l’identità personale e si diventa parte indistinguibile del tutto. Dall’occhio di Nate passiamo all’occhio di David, al nuovo protagonista di Six Feet Under che dovrà traghettarci nel proseguo degli episodi. Non lo credevamo possibile eppure è successo. Avremmo dovuto essere pronti ma non lo siamo stati e ora semplicemente siamo immobili di fronte a una linea isoelettrica che grida il suo sordo, monotono, assordante beep.
Soli davanti alla morte.
Eravamo convinti di poterla gestire, la morte. Che cinque stagioni di Six Feet Under ci avessero insegnato a tenere il giusto distacco, a maturare un’orgogliosa insensibilità all’inevitabile esito di ogni esistenza. Non avevamo capito nulla. Ora che è toccato a noi, ora che abbiamo sperimentato noi, sulla nostra pelle la morte, che una parte di noi ha scelto di tuffarsi, di annegare nell’infinita quiete della morte, non riusciamo a capacitarcene.
Six Feet Under è andata contro ogni nostra convinzione, contro quelle stupide, insensate -ora, solo ora ce ne rendiamo conto- logiche che ci avevano fatto credere che non saremmo potuti morire, che ci sarebbe stata solo una morte prima della sigla. Ma Six Feet Under non segue alcuna logica, proprio come la vita. Erano solo superstizioni, quelle stesse che nutriamo anche nella vita di tutti i giorni, nell’irreale eppure inconscia convinzione che a morire saranno sempre gli altri. Che a noi non possa toccare. Six Feet Under ha distrutto la speranza. E ora siamo soli con noi stessi, messi a nudo come non credevamo possibile mentre caliamo negli abiti ingessati di David e nelle sue paure.
A noi è toccato il peso della morte. A noi toccherà il peso del lutto, nel sopravvivere nel dolore, nella dilaniante sensazione di aver perso per sempre una parte di noi. Six Feet Under ci ha straziato e ci sentiamo incapaci di elaborare la cosa. Sappiamo cosa è successo ma non siamo in grado di capire. Ed è questo che ci terrorizza di più: la nuova, mostruosa consapevolezza che la morte non ha alcuna logica e può inghiottirci con la sua onda in qualunque istante. Qui, ora, nella 5×09 di Six Feet Under. Quando abbiamo perso ogni misera, narcisistica, infondata speranza.