C’è chi dice che la vita è così, che se le cose erano eterne non avevano valore. E poco importa se non usiamo il congiuntivo. Non c’è una maniera per addolcire la forma, per rendere il distacco meno traumatico. Quando arriva la fine di una cosa che non vuoi che finisca, non sei mai pronto. Specie se quella cosa è stata la tua casa, la tua pelle, la tua intera vita. Totti e la Roma stanno insieme anche senza congiunzione, l’uno si compenetra nell’altro in maniera naturale, istintiva. La congiunzione può diventare predicato senza che nessuno abbia da ridire. Totti è la Roma, sta scritto pure nella Sud. E Speravo de morì prima 1×05/1×06 orienta la bussola in quella direzione, nel campo magnetico tutto sballato del romanismo, dove ogni cosa è esaltata, amplificata, enfatizzata.
Era prevedibile che verso il finale la serie virasse su atmosfere più malinconiche, nostalgiche. L’ironia c’è, ma stavolta il sorriso è più amaro. Castellitto che prova a sgattaiolare via nei corridoi di casa per non farsi beccare con le lacrime agli occhi è divertente e fa ridere. Ma dietro la rappresentazione dell’aspetto comico della realtà si intravede una venatura di tristezza, la consapevolezza che i novanta minuti stanno per scadere. Il triplice fischio è dietro l’angolo, Speravo de morì prima 1×05/1×06 è l’attesa del gran finale, quello col botto che aspettiamo dal primo episodio. E non sarebbe mica male imbarcarsi sulla DeLorean di Ritorno al futuro e azzerare il tempo. Tornare al passato per rifare tutto daccapo e lasciare sospesa la fine. Ai titoli di coda Totti non sarebbe mai voluto approdare. Ma è arrivato un altro Natale, un anno passa in fretta e sembra di sentire Venditti cantare: confondono i ricordi i regali di Natale, trasformano in minuti tutti gli anni che passavi. Sempre, sempre resterai nella mia mente.
Anche Cassano assume in qualche modo i contorni di una figura tragica, un pungolo della coscienza che riesce ad aprire gli occhi all’amico e ad accompagnarlo con delicatezza verso l’uscita. Il re sale gli ultimi scalini. Ma è un re triste quello che non riesce a bere l’elisir di lunga vita. L’incantesimo si è spezzato, gli scarpini vanno appesi al chiodo.
Ed è proprio sugli scarpini che l’inquadratura indugia diverse volte in Speravo de morì prima 1×05.
Una presenza premonitrice, una metafora del prima e del dopo. Così vediamo gli scarpini abbandonati per terra con rabbia dopo l’ennesimo allenamento da riserva. Quelli sporchi di fango che mamma Fiorella trovava in bagno al ritorno di Francesco dal campo e quelli invece puliti e lucidati di Cristian, che la carriera ce l’ha ancora tutta davanti. Poi ci sono quelli dorati in edizione limitata dell’ultimo derby, che il sapore del campo lo hanno appena sfiorato. Passato, presente, futuro. Luca Ribuoli sui piedi ci torna ancora una volta, un’inquadratura fugace ma densa di significato: quando Castellitto da solo, nel silenzio dell’Olimpico, accarezza col piede il corner destro sotto la Sud. L’angolino dal quale Totti giocherà l’ultimo pallone della sua vita.
I simboli si fanno più insistenti e anche più evocativi. Sono il contrassegno emblematico di una città che vive di immagini, segnali, gesti allusivi. Roma è un’epifania a cielo aperto dove tutto ciò che tocchi si carica di significato, rimanda a quel dimme cos’è di vendittiana memoria a cui nessuno è ancora riuscito a dare un nome. Sacro e profano coesistono, proprio come nelle strade della città. Si amalgamano tra loro, in un combinato di sentimentalismo un po’ grottesco e un po’ fiabesco – non è un caso che in sei puntate compaiono due preti (Paolo Calabresi e Corrado Guzzanti) e un frate (Antonello Fassari).
Passato e presente si scambiano la fascia, ma raccontano sempre la stessa storia.
Una storia che si tramanda sulle spalle dei Capitani, cantori moderni dell’epica romana che si tramandano il fardello nel chiuso di uno spogliatoio. Giannini che passa il testimone a Totti, Totti che lo passa a De Rossi. Capitan passato, presente e futuro: Speravo de morì prima traccia un filo sottilissimo e delicato dentro l’anima stessa della Roma.
E ancora, il simbolismo attinge dalle citazioni cinematografiche per raccontare una storia che non puoi spiegare se non per immagini. La porta chiusa al centro del campo ricorda quella che il Gladiatore deve oltrepassare per raggiungere i Campi Elisi dopo la battaglia finale al Colosseo. Castellitto ci scorge dentro, ancora una volta, un po’ di passato e un po’ di futuro. Sembra una forzatura goffa, ma in realtà sintetizza bene quel connubio di epicità e ironia che avevamo già messo in risalto nella recensione dei primi due episodi.
Questa serie vuole regalarci un po’ di leggerezza, ma anche portarci dentro le inquietudini di un ragazzo fortunato che non vorrebbe vivere l’addio al calcio come un dramma, eppure non riesce a farne a meno. Non importa chi ne abbia bisogno e perché, gli dice il responsabile dell’ospedale pediatrico, ma coraggio. Segno che non esiste una graduatoria delle ragioni che possono renderci tristi: ognuno vive il suo dramma, ognuno è il protagonista tragico di un’opera decadente. Chi piange sulla tavoletta del bagno, chi si dispera davanti alla scatoletta per cani, chi rinuncia alla festa di matrimonio – “Chiama amore della mia vita 2” è ufficialmente la scena più assurda e insieme più rappresentativa di tutta la serie. Roma vive quel distacco come fosse il tramonto di un’idea, una separazione troppo dolorosa da accettare. C’ho una cosa qua… che me sento…. è quella cosa che sentiamo un po’ tutti ma alla quale non sappiamo dare una forma.
Quella cosa che deve aver sentito anche Pietro Castellitto, che in questo percorso ci ha accompagnato mettendo in gioco tutta la sua originalità e la sua leggerezza, fino alla fine. O meglio, fino a un istante prima della fine. Perché poi ha lasciato il palcoscenico a lui, al protagonista vero di questa storia stupenda e irripetibile. Castellitto si è defilato con deferenza e rispetto e gli ultimi minuti di Speravo de morì prima se li è presi tutti lui, Francesco Totti. Il resto lo conosciamo già, le immagini non sono poi così vecchie. Ma finale migliore non ci poteva essere. Questa serie ha viaggiato sempre con i piedi per terra, non si è presa mai eccessivamente sul serio, ci ha regalato una boccata di spensieratezza col suo umorismo leggero. Ma negli ultimi minuti è riuscita ad alzarsi in rovesciata e a confezionarci un eurogoal da copertina.
Mo’ posso pure morì…