Bentornati con la recensione del dodicesimo episodio della quarta stagione di Station 19. In questa puntata è stato trattato un tema molto importante e attuale.
Come ricorderete, nella scorsa puntata, proprio al termine, si fa riferimento ai fatti realmente accaduti a Minneapolis lo scorso maggio che hanno condotto all’assassinio di George Floyd per mano di alcuni poliziotti. E se in questi giorni è arrivata la sentenza della corte che condanna per omicidio i colpevoli di questo terribile atto, nella puntata di Station 19 vediamo come i membri della squadra reagiscono a questa tragica morte.
Ricordiamo che Miller, Sullivan e Hughes hanno subito sulla loro pelle il trattamento oltraggioso, razzista e violento di alcuni poliziotti nei loro confronti, perciò la ferita è ancora troppo fresca. Ho trovato molto interessante l’iniziativa del capitano Bishop di chiamare Diane, la psicologa del dipartimento, per poter aiutare la squadra a processare quella morte. Da una parte avevo paura potesse sembrare un po’ un tentativo disperato di mostrarsi comprensiva e di non dover affrontare praticamente e direttamente il problema con la sua squadra, ma poi, ci sono state spiegate le vere ragioni dietro questo gesto, proprio da Diane, ed è stato incredibilmente illuminante.
Ho sempre trovato Diane interessante, seppure l’abbiamo vista pochissimo. E l’episodio dodici di Station 19 mi ha confermato quanto sia straordinario questo personaggio. Nonostante lo scetticismo iniziale di alcuni membri della squadra, è riuscita a parlare con tutti e – francamente – ha chiarito molte cose soprattutto per noi spettatori.
Innanzitutto, mi è piaciuto molto l’incontro con Miller. È stato uno degli ultimi. Non si sono detti nulla, si sono solo guardati ed entrambi sapevano esattamente cosa stava passando l’altra persona. Diane non è riuscita a trattenere le lacrime e ha sfogato tutta la frustrazione, la tristezza e la rabbia di quel momento con la persona che più di tutte aveva bisogno di sfogarsi, Dean. Quel grazie che il ragazzo gli dice prima di uscire dalla stanza è stato incredibilmente potente. Una sola battuta in una scena che dice più di quanto le parole possano esprimere.
Molto bello è stato il momento con Travis. Travis che pone l’attenzione su un’altra questione fondamentale: il razzismo nei confronti degli asiatici. Seppure se ne parli di meno, come lui stesso puntualizza, esiste anche questo tipo di discriminazione. Durante il periodo del Covid, la violenza nei confronti di queste persone è cresciuta esponenzialmente. Ci viene raccontato che la mamma di Travis è stata approcciata in un supermercato da un pazzo che le ha sputato in faccia – tra l’altro – in piena pandemia. La vediamo in macchina, in lacrime che si ripulisce il viso. Per quanto sia triste, è un momento bellissimo.
Avevamo avuto un assaggio di questo tipo di razzismo, seppure più lieve quando Andrew e Carina erano sul treno per inseguire la trafficante di esseri umani e una signora, sentendoli parlare in italiano, si allontana da loro terrorizzata all’idea che possano trasmetterle il Covid (qui la recensione dell’episodio in questione).
Ma, tornando al fulcro dell’episodio, c’è anche un altro momento che ho trovato particolarmente illuminante e mi riferisco a quello di Warren. Warren arriva da Diane e le racconta quanto gli è accaduto quando è stato fermato dalla polizia, gli racconta come ha istruito i suoi figli a comportarsi in queste situazioni eppure non è contento. Non gli sembra di fare abbastanza e poi – all’improvviso – dice una frase che non può essere semplicemente buttata lì. Fa riferimento alla salute di qualcuno e sembra molto preoccupato, preoccupato al punto di portare Diane a domandargli chi stesse male e lui risponde eludendo la domanda, dicendo che nessuno sta male, ma io non ci credo.
Già nell’episodio precedente avevo avuto il dubbio che qualcosa non andasse con Warren e la prova a sostegno della mia tesi l’ho avuta nell’episodio 17×12 di Grey’s Anatomy (qui la recensione) in cui Miranda Bailey parla con Teddy e dice cose molto simili a quelle dette da Warren in questa puntata di Station 19. C’è qualcosa che non mi torna, qualcuno non sta bene, ma chi? Come al solito: MAI ‘NA GIOIA a Shondaland.
Finalmente anche Sullivan sembra essere sulla via della redenzione. Temevo stesse diventando tossico come Owen Hunt, ma sembra che si stia svegliando che stia ritrovando la retta via. È furioso, è oltraggiato, è ferito dagli eventi accaduti e finalmente ha aperto gli occhi. Aveva addirittura pensato di aiutare il dipartimento a convincere Miller a mollare la causa, ma adesso ha capito e spero veramente che mi faccia ricredere sul suo conto.
È stato interessante vedere anche l’approccio di Andy con l’intera faccenda. Sappiamo dal primo istante che lei è cresciuta con i pompieri e i poliziotti di Seattle. Suo padre era amico di molti poliziotti – come lei stessa ha specificato – lo stesso Ryan era un poliziotto prima che Shonda lo uccidesse tristemente. Vederla confrontarsi con questa realtà è stato molto interessante, tanto quanto è stato interessante sapere come la fa sentire in ansia l’aver sposato un uomo di colore. Adesso anche lei è sveglia ed è vigile su determinate questioni che aveva ignorato fino a quel momento.
Insomma, questo episodio di Station 19 è stato veramente interessante. L’immagine più bella che mi è rimasta impressa è quella della squadra che scende a manifestare pacificamente per le strade lasciando effettivamente un’impronta e rendendosi partecipe del cambiamento. I pompieri della squadra 19 non hanno intenzione di rimanere in silenzio, sono pronti a fare sentire la loro voce e sono pronti a farla sentire a tutti.
P.S. Diane torna più spesso, ti prego, ti adoro.