Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla 1×02 di Suburra
“Roma. Patrizi e plebei, politici e criminali, mignotte e preti. Questo posto non cambia da 2000 anni”
Non cambia mai. Mutano le forme, i volti, le dinamiche. Scorrono i tempi e si evolvono i costumi, senza intaccare gli usi. Roma, Città Eterna, è perennemente nel caos. E Suburra, dal basso, detta le condizioni e appiana ogni differenza, facendo del Paradiso e il Purgatorio un unico Inferno. Lo dice Samurai, e c’è da credergli: il vero Re di Roma è l’unico che non necessita di un ruolo. Un deus ex machina che si muove silenziosamente e tesse la propria tela, portando dentro tutti: patrizi e plebei, politici e criminali, mignotte e preti.
Questo, in fondo, sarà il leitmotiv di Suburra, e Patrizi e Plebei, secondo episodio della prima stagione, ha rimarcato il concetto, evidenziando un punto di svolta che farà la differenza tra il fallimento e il successo dell’esperimento all’italiana di Netflix: questa è una storia di persone, non solo di personaggi. E come tali, lasceranno da parte i tratti macchiettistici in nome di un’umanità che rappresenta l’imponderabile e, di conseguenza, l’anima più pura del racconto.
La nostra recensione del pilot, critica seppur attendista (se volete dargli un’occhiata, la trovate qui), aveva evidenziato pregi e limiti, sottolineando un auspicio: la caratterizzazione multidimensionale dei personaggi, appena abbozzata con risultati spesso discutibili nel primo episodio, necessitava di maggior personalità e originalità. Obiettivo centrato, anche se la strada è ancora molto lunga. Aureliano e Spadino si stanno imponendo come veri protagonisti di Suburra: il primo, da banale criminale superficiale di provincia, fa emergere, soprattutto grazie all’impressionante espressività di Alessandro Borghi, un caos interiore che sfocia in una perenne imprevedibilità, vero motore pulsante dei primi due atti. Lui, come l’improbabile socio: lo “zingaro” cela dietro una maschera frivola una grande storia, da vivere fino alla fine sul filo del rasoio.
Se a questo si aggiungono i mille volti del mite Lele, pariolino sui generis (ma non troppo) stretto in una morsa del quale potrebbe diventare dominatore dalle esigenze di un ruolo che si divide tra una famiglia che non lo conosce, il rapporto da pericoloso toy-boy con la criptica Sara, il debito col Re e la dissacrante triade con Spadino e il futuro Numero Otto, comprendiamo appieno il salto di qualità che segna un solco tra il primo e il secondo episodio di Suburra, ma un problema permane: la debolezza di Samurai. L’ottima scrittura del personaggio non è accompagnata da un’interpretazione all’altezza. Francesco Acquaroli sembra non dominare il ruolo che fu di Claudio Amendola, e la serialità televisiva contemporanea concede raramente una proroga ad una grande storia senza un grande villain.
D’altronde, se è vero che Roma sia l’abbraccio collettivo di “patrizi e plebei, politici e criminali, mignotte e preti”, è altrettanto sensato affermare che l’unico artefice di un’eternità che non contempla le rivoluzioni sia un burattinaio onnisciente. Quel che è il vecchio Samurai, appena abbozzato dall’ordinarietà di un’interpretazione monodimensionale che poco ha a che spartire con lo spessore della longa manus che fa di Roma il suo palcoscenico. Un’ombra, in un teatro di fantasmi dai volti più disparati.
Lui, come in parte hanno già fatto molti altri, ha tempo e spazio per farci ricredere, ma una cosa è certa: la specularità delle prime sequenze con le ultime rappresenta idealmente la circolarità di un mondo nel quale tutto si muove per star fermo al solito posto. Uno status quo minato dall’istinto delle schegge impazzite, e dall’evoluzione delle persone che non sanno star dentro il proprio personaggio. Loro come Suburra: una serie tv italiana, ma non troppo. Abbastanza per sperare in una crescita esponenziale. E farci dimenticare la partenza zoppicante.
Antonio Casu
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