ATTENZIONE: proseguendo nella lettura potreste imbattervi in spoiler su Tapie.
Il catalogo Netflix si è impreziosito notevolmente in questi giorni grazie all’uscita della nuova miniserie francese intitolata Le mille vite di Bernard Tapie (semplicemente Tapie in lingua originale). Ideata, scritta e diretta da Tristan Séguéla (Una notte da dottore) in collaborazione con Olivier Demangel (November – I cinque giorni dopo il Bataclan) la miniserie è composta da sette episodi, per un totale di circa poco più di sei ore, che raccontano l’ascesa e la caduta di Bernard Tapie (1943-2021), una delle figure francesi più controverse degli ultimi vent’anni del XX secolo.
“Questa seria è liberamente ispirata a fatti reali. I fatti narrati sono noti al pubblico. La sua cerchia, la vita privata e i dialoghi sono inventati“: così recita a inizio puntata un disclaimer molto preciso e chiarificatore. Quasi che gli autori abbiano voluto mettere le mani avanti per evitare qualsiasi polemica. Cosa ovviamente impossibile. La famiglia Tapie, infatti, attraverso le parole di Dominique, la vedova, e di Stéphane, il figlio. ha espresso tutto il suo disappunto sulla produzione Netflix sottolineando come lo stesso Bernard Tapie fosse contrario alla messa in scena della sua vita. “Tristan Séguéla ha è approfittato dell’amicizia quarantennale che lo legava alla nostra famiglia per raccontare in maniera del tutto arbitraria la storia della mia famiglia”, le parole di Stéphane.
In ogni caso la vedova Tapie ha saputo spendere parole d’elogio nei confronti di Laurent Lafitte, ex membro della prestigiosissima Comédie-Française e interprete del protagonista: “devo ammettere che Lafitte è stato davvero bravo a interpretare mio marito. In alcune scene la somiglianza è davvero impressionante“. Ma gli elogi si fermano qui. La vedova prosegue: “il mio personaggio, invece, è del tutto romanzato. Mi si fa passare come una donna d’affari quando in realtà non ho mai avuto voce in capitolo nel business di mio marito“.
Chi vi scrive si trovava a Parigi nei primi anni Novanta e ricorda bene come a ogni angolo della strada si parlasse di Bernard Tapie. Un uomo che si era fatto da solo, partendo dal nulla poiché figlio di un semplice riparatore di caldaie e iscritto al più importante e più rappresentativo sindacato di sinistra di Francia.
Chi vi scrive ricorda perfettamente quello che si diceva di Tapie: un imbroglione della peggior specie o un genio, un visionario. Da un estremo all’altro.
Questo, infatti, è il punto di vista che gli autori hanno voluto sottolineare nella serie: le continue montagne russe alle quali Tapie sottoponeva se stesso e la sua famiglia, incapace di accettare di dover restare allo stesso livello dei genitori.
Eppure, in uno dei momenti più toccanti di tutta la serie, Tapie confessa al padre di non essersi mai vergognato delle sue origini, di aver sempre ostentato orgoglio e fierezza verso il padre, operaio, e la madre, casalinga. Ma di non esser capace di riuscire a stare fermo perché divorato da un tarlo che gli chiedeva sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Le mille vite di Bernard Tapie racconta proprio questa incapacità, percepibile fin dai primi minuti. La famiglia e gli amici si ritrovano a casa dei genitori di lui per guardare una trasmissione che dovrebbe decretare il successo di una canzone. Tapie concorre sotto lo pseudonimo di Tapy e la sua canzone viene acclamata dal pubblico e dalla critica presente nell’emissione. Lo sguardo che però il padre dà al figlio è carico di disappunto, come se cantare non fosse un mestiere capace di mantenere una famiglia, come se lo show business non fosse un lavoro.
Nella scena successiva è passato del tempo e vediamo Tapie scendere dalla sua auto portando con sé un televisore che vorrebbe rivendere per avere abbastanza denaro per comprarsi un abito con il quale ottenere un finanziamento da una banca. Si intuisce che la canzone non abbia avuto il successo sperato. E così via. Tapie ottenne un finanziamento (da un privato, però) per aprire una rivendita di elettrodomestici ma poi venne condannato e ridotto in miseria. Comprese il sistema con il quale era stato ridotto sul lastrico (e privato del suo diritto di gestire imprese) e lo sfruttò a suo vantaggio per diventare proprietario di una legatoria. Poi di un’industria di pile. Fino a creare un impero nel quale l’Adidas era il fiore all’occhiello.
Attraverso i sette episodi lo spettatore segue l’altalenante vita di un semplice proletario riuscito a diventare capitano d’impresa la cui popolarità lo portò a venir convocato all’Eliseo dall’allora presidente Mitterand e convinto a diventare ministro delle politiche urbane.
La miniserie, però, non racconta soltanto i suoi successi, imprenditoriali e sportivi, e le sue sconfitte, politiche, etiche e morali. Si concentra molto anche sui suoi rapporti famigliari, in particolare quelli con la seconda moglie, Dominique, interpretata da una splendida Joséphine Japy (Amore a seconda vista) e quelli molto conflittuali con il padre, interpretato da Patrick d’Assumçao (Jeanne du Barry – La favorita del Re).
Se con la prima il rapporto è solido nella buona e nella cattiva sorte, nonostante ricevano bordate da tutte le parti, con il secondo c’è un amore/odio continuo che sfocia in un gesto che la dice lunga su quello che sia il legame di sangue: è il padre, infatti, ad accompagnare il figlio in prigione, perché condannato per corruzione nell’affaire Valenciennes-Olympique Marsiglia.
Ciascuno dei sette episodi, coprendo trentacinque anni, racconta un evento significativo di quella che potremmo definire un’odissea fatta di abbaglianti momenti di gloria e precipitose cadute. Una formula piuttosto interessante che si svincola dalla solita struttura classica del racconto biografico lineare creando una sorta di spaccati di vita simili ad anelli che si incatenano tra di loro.
Anche la cura con la quale viene ricostruita la Francia di quegli anni è assolutamente convincente nonostante non prenda mai particolari rischi (come succede invece nella meravigliosa A Very Secret Service).
Il cast ovviamente gira attorno a Laurent Lafitte ma gli attori non appaiono mai come semplici comparse. Anzi, mano a mano che gli eccessi di Tapie crescono con il passare della trama la presenza delle controparti risulta necessaria a creare una sorta di contraltare utile a evitare che il protagonista esploda insieme al suo ego (ed è emblematica in questo la scena che si svolge nell’ufficio del procuratore della repubblica che lo condannerà alla prigione).
L’interpretazione di Laurent Lafitte è debordante a cominciare dalla somiglianza con l’ex ministro francese. Eppure l’attore riesce a mantenere una credibilità davvero prodigiosa anche nelle esagerazioni non dando mai l’impressione di stare interpretando una simpatica canaglia che strizza l’occhio allo spettatore.
Le mille vite di Bernard Tapie è una serie davvero interessante, fatta bene, con criterio, capace di appassionare e divertire lo spettatore soprattutto se non si conosce il personaggio. Per chi, invece, lo conoscesse potrebbe lasciare l’impressione che si sia voluto mitizzare un uomo controverso capace di infiammare una città, Marsiglia, e una nazione, la Francia, con la vittoria di una Champions League. Una città che per questo lo avrebbe potuto persino eleggere sindaco senza battere ciglio.
In ogni caso, oltre a intrattenere, la miniserie targata Netflix fa riflettere. E molto. Perché sottolinea senza ambiguità il cambiamento dei tempi e l’adattamento a essi della persona comune capace di sognare, anche in grande, e che per realizzarsi è disposta a tutto. Davvero a tutto.