Abbiamo settantotto fette di torta, novantanove patatine, cinquantaquattro polli, trentotto insalata, duecentocinquantacinque panini al manzo da consegnare entro otto minuti perciò sì, Syd, merda! “Ve l’avevo detto!”, “Tu non mi hai detto un cazzo”, Chiudi la bocca, chiudi quella cazzo di bocca e fammi pensare un momento. Cristo santo, te l’avevo detto che non eri pronta, che quel cazzo di piatto non era pronto! “Che c’entra tutto questo con il risotto?” CHEF BASTA, BASTA!
The Bear, 1×07
La telecamera è ferma, osserva e assorbe le urla di Carmy, inizialmente paralizzato davanti a quelle comande che non smettono di moltiplicarsi. Poi l’urlo si trasforma in movimento: Carmen inizia ad agitarsi, la telecamera lo segue, lo insegue, Carmy accelera, supera Richie, la telecamera è risucchiata prima dalle azioni di Richie stesso, poi si fa attrarre da Neil, rientra in cucina, riprende fiato su una discussione, stringe su Sydney ed è lei stessa a ritrascinare l’immagine su Carmen.
Siamo nella 1×07 di The Bear, l’episodio più straordinario e snervante della serie. Un unico, grandioso, ossessivo, asfissiante long take, un piano sequenza di incredibile maestria. La mancata chiusura dei preordini online da parte di Sydney ha causato un sovrannumero pazzesco di asporti. La cucina è in subbuglio, il clima si scalda immediatamente e la telecamera sembra impazzire, attratta come una trottola da tutti i protagonisti, vittime e carnefici della loro prigione, di quei pochi metri quadri di cucina in cui sembrano irrimediabilmente bloccati.
The Bear è un incredibile e riuscitissimo insieme di frammenti disordinati. Tutti si muovono disarmonicamente, formiche impazzite in cerca di una stabilità che non troveranno fino e oltre la fine dell’episodio. L’inquadratura non si stacca mai, segue ed è seguita da tutti, taglia velocemente su un personaggio e sull’altro mentre urla di nervosismo e una musica, la bellissima Spiders dei Wilco, accompagna e sottolinea ed esaspera ed esalta e sovraccarica il momento portandoci giù nel vortice, in quella frenesia a cui nulla e nessuno, in questo episodio di The Bear, si sottrae.
Siamo esausti, confusi, in preda all’ansia al termine di questo piccolo capolavoro seriale che accentua la mostruosa bravura recitativa di ogni attore e in particolare di un Jeremy Allen White che meritava una parte così da tanto, troppo tempo. Ma i riconoscimenti in questo caso vanno a tutti, anche e soprattutto alla regia che realizza un piano sequenza infinito, dalla difficoltà tecnica inimmaginabile.
La scelta del long take, infatti, non ammette errore.
Se la telecamera sbaglia, se un attore non recita o non si muove alla perfezione, se tutto non combacia in un perfetto gioco di incastri la registrazione è andata, finita, da buttare e bisogna ricominciare daccapo. Ancora e ancora, fin quando non sia tutto perfetto dall’inizio alla fine. Si tratta di una scelta registica che nonostante la difficoltà d’esecuzione è apprezzata e ricercata perché in grado di colpire lo spettatore emozionalmente. Ma questo piano sequenza di The Bear, questo in particolare, ha qualcosa in più.
I più devoti serializzati ricorderanno magnifici long take come quello della 4×09 di Game of Thrones, della prima stagione di True Detective (1×04, Who Goes There) o i quaranta minuti capolavoro nella 3×05 di Mr. Robot. Tutti questi piani sequenza condividono la capacità di restituire vivido realismo alle scene e di agitarle in un crescendo di tensione altrimenti non possibile. La telecamera diventa letteralmente l’occhio umano, va oltre l’occhio umano perché la palpebra non si serra mai, è sempre fissa sulla scena, in un continuo movimento che la fa scivolare ininterrottamente verso nuovi ambienti e dialoghi. Eppure, il piano sequenza di The Bear ha anche qualcosa in più sul piano tecnico.
Tutti questi long take si svolgono in ambienti complessi ma anche piuttosto ampi dove la camera ha la libertà di spaziare e saltare. In Mr. Robot la scenografia è meticolosamente studiata perché tutto, anche le pareti, possano svuotarsi e lasciare il posto all’occhio di una ripresa che arriva perfino a compiere un volo d’uccello. In The Bear questo non è possibile. Lo spazio non lo permette.
La ripresa incontra costantemente ostacoli, sia umani che artificiali, che ne bloccano il cammino, lo rallentano, lo complicano e rendono tutto ancor più ansiogeno.
È come se la telecamere al pari di un componente della brigata di Carmen Berzatto fosse prigioniera di quello spazio, costantemente costretta a trovare il suo posto senza mai riuscirci, scossa e confusa dalle grida e dalle frenetiche attività di ogni personaggio, psicoticamente assalita da un’ansia che trapassa lo schermo e giunge fino a noi. È il nostro occhio, il nostro maledetto occhio che non riposa mai, che non si chiude mai, senza palpebre, senza ombra, senza pace.
Siamo lì e non siamo semplicemente costretti a guardare, a fissare e sentire tutto ma siamo obbligati a viverlo, a far parte di quei momenti di crisi assoluta. E iniziamo a sudare, iniziamo a respirare a fatica a sentire il bisogno di prendere aria di interrompere la visione di riprendere fiato perché è troppo troppo troppo non riusciamo a pensare non riesco a pensare sì Carmy arrivo Carmy sì mi tolgo di mezzo sì ecco taglio le verdure sì un’altra comanda ecco vado nella sala no non ho ancora preparato la salsa sì i panini sì, ecco, allora, io, io, io…
The Bear è soffocante e meravigliosa. Quell’agitazione e drammatico stress di cui abbiamo sempre sentito parlare riguardo le cucine dei ristoranti ora lo abbiamo sperimentato, ci è stato gettato addosso e siamo stati costretti a farne esperienza. Non è la visione fissa e monotonamente rassicurante di un Masterchef che al massimo stringe sul sudore di un concorrente prima di tirare il fiato e inquadrare comodamente a distanza gli affanni dei cuochi. No, non siamo sulla spiaggia a guardare con il perverso piacere di cui scriveva Lucrezio le disgrazie di chi è nella tempesta. Noi nella 1×07 di The Bear siamo nella tempesta. E, cazzo, non ridiamo per nulla.
Come pure non ridono i protagonisti.
Le tensioni, le incomprensioni, i nervosismi e i sassolini nelle scarpe fino ad allora più o meno tenuti per sé esplodono in questo loculo mortifero che non dà scampo. E allora se Carmy voleva mascherare il suo disappunto per il risotto servito da Sydney contro il suo parere, quando le cose precipitano non può fare a meno di lasciarsi andare a un estemporaneo e incoerente “Te l’avevo detto che non eri pronta, che quel cazzo di piatto non era pronto!“, che suscita il giusto disappunto della ragazza: “Che c’entra tutto questo con il risotto?”.
Ma a venire a galla sono tutte le tensioni interne: quelle tra Sydney e Richie, tra Tina e Sydney, tra Marcus e Carmy. La cucina di The Bear ci restituisce di colpo, in tutta la sua violenza e nel brutale realismo la verità di ogni personaggio, quella verità nascosta sotto l’ipocrita ma necessario sorriso di chi è chiamato a stringere i denti, ingoiare il rospo e fare finta di nulla. Ora che invece non può più farlo, ora che tutti sono fuori controllo, ecco un’esplosione costante di verace insoddisfazione. Liberati dai legacci dei freni morali e sociali tutti i protagonisti emergono nelle loro debolezze e paure, nel loro bisogno di attenzione e riconoscimento.
Proprio la mancanza di valorizzazione porterà Sydney e Marcus ad abbandonare l’inferno, a tirarsi fuori da quel labirinto asfissiante nel quale non sentono di voler continuare a vivere. Escono dall’inquadratura, dagli spazi dell’agitazione e là giacciono prima che la telecamera decida di fare lo stesso, anche lei sopraffatta dallo stress emotivo, snervata da venti minuti di puro caos, decidendo infine di chiudere il suo occhio, di portare il buio sullo schermo mentre dei grotteschi applausi sembrano volerci staccare dall’immedesimazione, rispedirci alle nostre stanze, sottolineare la finzione scenica che rischiava di risucchiarci per sempre.
Sembra finalmente finita.
Il nostro cuore rallenta, la testa smette di pulsare, la musica si attenua mentre riprendiamo possesso di noi stessi. Ma c’è qualcosa. Dalla musica in calando, dagli applausi che si acchetano emerge un rumore, un ossessivo, snervante, folle rumore che non ci abbandona, che non ci dà tregua. È quello degli scontrini, delle comande che continuano a uscire anche a schermo nero, che ci perseguitano nonostante le immagini siano ormai lontane, e ci lasciano quel senso di asfissiante accerchiamento. Chiudiamo gli occhi mentre quel rumore continua a rimbombarci in testa, mentre il cuore riprende ad accelerare. Tiriamo il fiato, un respiro profondo e riapriamo lentamente gli occhi sperando sia finita, sperando di trovarci sulla tranquilla spiaggia di casa nostra, a osservare, nella calma, le tempeste di un mare lontano da noi, lontano da noi, lontano da noi.