Disegni anni ’30, musica gioiosa, suoni cartooneschi e un filtro agé. Sono gli elementi principali di un videogioco che è stato la gioia e la disgrazia di tantissimi videogiocatori, alle prese con Cuphead, Satanasso e i tanti boss dell’Isola Calamaio. Nel 2017 faceva la sua comparsa Cuphead, un videogioco run ‘n’ gun (il classico “sparatutto”, molto in voga tra gli anni Ottanta e Novanta, sviluppato e pubblicato dai fratelli Chad e Jared Moldenhauer di StudioMDHR, in cui oltre a colpire i nemici bisogna anche correre, saltare e schivare) con diversi elementi del genere platform, dove il giocatore, nelle vesti del protagonista del titolo o di suo fratello Mugman, ha il compito di affrontare e sconfiggere una serie di boss per ripagare il debito con il Diavolo. Lo stile iconico del videogioco, dichiaratamente ispirato ai cartoni anni ’30 con omaggi a Walt Disney e ai fratelli Fleischer, ha reso in breve tempo Cuphead un titolo unico e amatissimo.
Era quindi solo questione di tempo prima che il videogioco venisse adattato per il piccolo schermo, trasformandosi, appunto, in uno di quei cartoni da cui esso stesso aveva preso ispirazione. Disponibile da venerdì 18 febbraio sul catalogo Netflix, The Cuphead Show consta di 12 episodi, ricchi di easter eggs, di omaggi al videogioco e non solo, con personaggi entrati ormai dell’immaginario pop. Ma sarà riuscito a rendere davvero onore alla controparte ludica?
ATTENZIONE! Questa recensione potrebbe contenere SPOILERS, se quindi non avete ancora visto Cuphead vi consigliamo di tornare più tardi.
Lo show vede protagonisti Cuphead e suo fratello Mugman alle prese con mille disavventure e pericoli sull’Isola di Calamaio. Dopo una giornata alle giostre finita molto male, Cuphead perde la sua anima a un gioco, ritrovandosi in tal modo in debito con Satanasso. Il Diavolo, ovviamente, non ha alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire l’anima della pestifera tazzina e proverà in tutti i modi a rubargliela nel corso dei dodici episodi. Al fianco di Cuphead troviamo il cauto e pauroso Mugman, nonno Bricco, la misteriosa Chalice e tanti altri personaggi usciti fuori direttamente dal videogioco indie. Ogni puntata vede i nostri protagonisti alle prese con avventure diverse che alternano problemi “domestici” con vicende legate ai boss principali del gioco: Ribby & Croaks, The Root Pack, Phantom Express, King Dice.
Dobbiamo ammetterlo, questa prima stagione di Cuphead non mette in scena moltissimo concentrandosi piuttosto sulla presentazione dei personaggi principali e accennando ad alcuni boss dell’Isola di Calamaio 1.
Nell’ottica di voler portare avanti lo show per parecchio tempo, questa scelta risulta abbastanza rilevante. Mostrare tutto e subito rischierebbe di annullare le aspettative dei fan e impedirsi la possibilità di costruire una serie duratura. The Cuphead Show preferisce, in questo senso, la strada della discrezione, entrando nel vivo della trama un passo alla volta con una narrazione che ricorda da vicino più i Looney Tunes che i cartoni animati moderni come Rick & Morty e Disincanto (qui la nostra recensione dell’ultima stagione).
Il cuore dello show è tutto nel rapporto altalenante, chiassoso e tipicamente fraterno di Cuphead e Mugman. Come ogni coppia di fratelli che si rispetti, infatti, i due passano la metà del tempo a bisticciare e l’altra metà a proteggersi le spalle a vicenda. Se Mugman confeziona un maglione invisibile per tenere al sicuro Cuphead, quest’ultimo a sua volta cerca di tirare fuori dall’altro tutto il coraggio che non pensa di avere. Un po’ Mario e Luigi, i due fratelli ne combinano di tutti i colori, complice l’ingenua scanzonatezza della loro età. Ecco quindi che si ritrovano con un pestifero bebé tra le maini o a scalare un vulcano o ancora ad attraversare un cimitero in piena notte e perfino in fila con il Diavolo per provare l’ultima giostra.
Cuphead e Mugman sono, indubbiamente, l’elemento più riuscito dello show. Due personaggi distinguibili l’uno dall’altro e che si compensano a vicenda; dove Cuphead si comporta in maniera spericolata e saccente, Mugman bilancia con il suo carattere riflessivo e calmo. Ed è proprio grazie a questo duo così equilibrato che The Cuphead Show rappresenta la (quasi) perfezione del videogioco. Oltre alle due tazzine particolarmente ben fatti risultano nonno Bricco, che nel cartone assume un ruolo decisamente più sostanzioso rispetto alla controparte ludica, e Satanasso, cattivo dall’humor irresistibile che canta, danza e va in fiamme quando si arrabbia. Same here!
L’amore per il videogioco e il desiderio di confezionare un prodotto che rendesse felici i fan sono ingredienti evidenti nel colorato paiolo di The Cuphead Show.
Tantissimi gli omaggi e gli easter eggs a Cuphead e non solo. Agli osservatori più attenti non sfuggiranno infatti alcuni riferimenti di origine disneyana: un gatto Felix qua e una Clarabella là, giusto per dirne due. Stranamente, però, quel filtro vintage che rese il videogioco un cult non si sente in maniera altrettanto forte in TV. D’altronde, Cuphead era un gioco così rigorosamente anni ’30 – nello stile e nelle musiche – da creare degli scenari impossibili da accettare nel panorama televisivo moderno pensato per i bambini. Pensiamo al livello in cui Cuphead si scontra con una raffica di sigarette mentre combatte contro un sigaro, in piedi su un posacenere, o ancora allo scontro contro le bottiglie di alcolici o alle immagini di donnette tipiche del periodo.
Nella messa in scena, quindi, è stato cercato un compromesso. Il filtro impolverato c’è ancora ma i colori sono tutti più sgargianti, i disegni animati perfettamente realizzati e le voci fin troppo pulite. Un compromesso necessario data la conversione in altro medium che allo stesso tempo, però, intacca quella autenticità che avevo reso speciale il materiale di origine. Ci sono dei punti deboli, inutile girarci attorno, ritrovabili, per esempio, in quella sigla poco incisiva che nel doppiaggio italiano rende pochissimo e nella presenza di pochi personaggi noti. Forse troppo pochi. Ma, come abbiamo sottolineato più e più volte, The Cuphead Show colpisce a segno sfiorando di pochissimo il centro del bersaglio.