Dopo un avvio di quinta stagione col botto, The Handmaid’s Tale prosegue con un terzo episodio in cui il freno a mano tirato si sente tutto, ma non per questo meno carico di evoluzioni ed emozioni.
Il secondo episodio, come vi avevamo raccontato anche nella nostra appassionata recensione, si apriva e si concludeva con un evocativo primo piano di Elisabeth Moss, tornata alla regia di questi primi due episodi. Ora che la stagione comincia a muovere le pedine in avanti, non c’è più molto spazio per soffermarsi su dettagli emotivi, che comunque sono presenti all’interno della serie, anche se più distillati e inseriti all’interno di una narrazione più strutturata.
Appare ora chiaro che il tema di questa quinta stagione, che sarà la penultima per The Handmaid’s Tale, sarà l’ultimo tentativo disperato di June di ricongiungersi con sua figlia Hanna e, in parallelo, l’assalto dell’Ancella ribelle a Serena Joy, il nome che, ora che Fred è stato eliminato, campeggia in rosso e in maiuscolo sulla sua lista.
Chi si aspettava un’entrata a gamba tesa di Serena nell’agone politico e diplomatico di Gilead, con il promesso attacco raffinato al fianco dell’America e del Canada che era stato promesso e anticipato nei trailer, è rimasto deluso. In questa puntata vediamo che Serena ancora non si è buttata a capofitto nella sua missione e sta ancora elaborando (o fingendo di elaborare) il lutto per la morte del marito.
Forse proprio questa situazione di stasi la porta a rimanere in panchina rispetto a ciò che avrebbe desiderato: un incarico di potere a Gilead. Le alte sfere della repubblica teocratica, però, la ricompensano (o cercano di togliersela dai piedi?) con un compito di alta diplomazia che, guarda caso, comincia proprio dal Canada, rispedendo la vedova affranta a Toronto, sempre con il segugio Tuello al seguito.
Serena, però, non è una donna nata per stare all’angolo e per questo riconosce di non essere amata dalle donne (lei intende dalle donne di Gilead, che invece sono cresciute stando ai margini). Per questo continua a seminare gesti e atteggiamenti per ingraziarsi gli uomini, come una previdente formica. Come la grottesca proposta di matrimonio a Lawrence o come il bacio dato a Tuello sulla guancia, in un momento carico di tensione erotica come può essere una situazione tra un diplomatico di un paese democratico, probabilmente doppiogiochista ma che non sa resistere al fascino femminile e una donna scaltra, che ama fingere di essere indifesa e che ha molte frecce al suo arco da giocare, inclusa la gravidanza, per ispirare desiderio di protezione.
Serena dunque torna al punto di partenza, così come fa anche June, almeno apparentemente. L’impossibilità di poter essere utile a sua figlia in ogni modo, dentro e fuori Gilead, stanno minando sempre di più la sua sanità mentale. La telefonata con Nick, che riaccende una scintilla di un amore che ha bruciato il tempo che era necessario a entrambi per non morire di freddo, riconferma la kafkiana situazione dell’Ancella ribelle in questa stagione: non è mai nel posto giusto.
La sensazione di impotenza comincia a diventare lacerante, soprattutto per colei che ha reso possibile il Volo degli angeli, l’evasione di massa da Gilead di donne e tantissimi bambini: ma non della sua Hanna, per la quale ormai il tempo stringe. Il colore porpora, degli abiti con cui era vestita durante la cerimonia funebre in cui Serena l’ha usata vigliaccamente come messaggio per June, significa che il suo tempo sta per arrivare: diventerà una moglie, appena il regime avrà terminato l’opera di formazione nella scuola per mogli a cui è destinata.
Il senso del tempo, che spesso abbiamo faticato a calcolare in The Handmaid’s Tale, diventa centrale ora che la bambina sta davvero per perdere ogni possibilità di essere liberata. Non è facile mantenere il senso del tempo che scorre, in un luogo in cui ogni cosa appare come congelata, ordinata secondo un rigido codice di colori (per aiutarvi a comprenderli e perché è una simbologia assolutamente meravigliosa, abbiamo scritto questo) che scandiscono doveri, ruoli e destini.
Il colore porpora, nella simbologia di questa serie, diventa il colore che caratterizza le ragazze che non sono più bambine né ancora donne, ma che di sicuro saranno presto mogli. Bambine strappate ai genitori, indottrinate e costrette con una violenza gentile ma implacabile a seguire un destino di sudditanza al quale una madre, June, cerca disperatamente (e rabbiosamente: il ruggito di June a Serena sancisce che la guerra non farà prigionieri) di strappare almeno la sua.
Il color porpora diventa, in The Handmaid’s Tale, il colore della rabbia.
In tema di destini, un personaggio potrebbe trovare in questa stagione la svolta che chi ha letto anche il seguito de Il racconto dell’ancella, I testamenti, conosce e che non vede l’ora di vedere trasposto sullo schermo. Senza fare spoiler, per questo personaggio confrontarsi con le conseguenze estreme del fanatismo del regime e, di riflesso, del suo stesso fanatismo potrebbe fungere da trigger per una radicale trasformazione interiore.
Vedere finalmente quel personaggio assumere il ruolo che gli spetta all’interno dell’universo narrativo di Margaret Atwood non sarebbe solo una grande soddisfazione. Lo toglierebbe soprattutto dall’empasse in cui si era impantanato nell’ultima stagione, in cui era sempre più relegato a ripetere ossessivamente il suo ruolo, ormai diventato quasi macchiettistico.
Non c’è molto altro da aggiungere per commentare un avvio di stagione come quello di The Handmaid’s Tale 5 che, per ora, sta facendo tutto giusto. Forse è proprio questo che fa nascere nello spettatore la voglia di venire sorpreso con qualcosa che, per una volta, non è perfetto, non è lineare e non è meravigliosamente eseguito come nello stile di questa serie. Non ci aspettiamo che The Handmaid’s Tale continui a svolgere il suo compito seguendo i binari che ci aspettiamo: bramiamo di essere sconvolti, di provare sensazioni contrastanti, di non sapere più da che parte stare e sentirci felici così.