Attenzione: l’articolo contiene spoiler sulla prima stagione di The Midnight Club. Evitate la lettura se non volete rovinarvi la sorpresa.
È finalmente sbarcata su Netflix The Midnight Club, serie basata sull’omonimo romanzo di Christopher Pike e figlia della proficua collaborazione tra la piattaforma streaming e Mike Flanagan, già la mente dietro The Haunting of Hill House, The Haunting of Bly Manor e Midnight Mass. Visto il meritato successo riscosso dalle opere precedentemente create da Flanagan per Netflix, le aspettative che circondavano l’arrivo di The Midnight Club erano altissime, soprattutto perché pur rimanendo all’interno del genere horror la serie si discosta in parte da quelle che sono le caratteristiche più tipiche dei lavori di Flanagan, spostando l’attenzione su un gruppo di adolescenti alle prese con la malattia e il lutto.
Il romanzo di Christopher Pike racconta infatti le vicende di otto ragazzi malati terminali che decidono di passare i loro ultimi mesi di vita a Rotterdam Home, struttura specializzata nell’aiutare gli adolescenti prossimi alla morte ad accettare il loro destino e a rendere quanto resta loro da vivere il più sereno possibile. I ragazzi di Rotterdam Home, a cui si aggiunge all’inizio di The MIdnight Club la protagonista Ilonka (Iman Benson), si riuniscono ogni sera a mezzanotte per raccontarsi storie terrificanti, continuando una tradizione che gli abitanti della casa sembrano tramandarsi fin dalle sue origini. Ben presto Ilonka e i suoi amici si accorgeranno però che a Rotterdam Home c’è qualcosa di strano e, tra seminterrati nascosti e inquietanti apparizioni, inizia un viaggio alla ricerca di risposte che possano aiutarli non soltanto a comprendere cosa succede nella struttura, ma soprattutto a trovare un modo di fermare il cancro che li sta uccidendo, proprio come successo decenni prima alla misteriosa Julia Jayne.
Confusionaria e mai del tutto a fuoco, The Midnight Club è finora la meno riuscita delle serie create da Mike Flanagan per Netflix. Eppure non tutto è da buttare.
Se le tematiche principali della serie horror tratta del romanzo di Christopher Pike sono sicuramente in linea con quelle delle due meravigliose stagioni di The Haunting, che ricordiamo come storie di fantasmi e di umano dolore, la loro trattazione rimane spesso troppo in superficie e solo in alcuni rari momenti riusciamo a cogliere la profondità dell’esperienza vissuta dai protagonisti. Con il fantasma incombente della morte presente in ogni scena, ci aspetteremmo che in The Midnight Club il tema del lutto e dell’ingiustizia di una fine così precoce fossero trattati con la sensibilità che abbiamo visto nelle altre produzioni di Flanagan, e invece spesso e volentieri la serie si accontenta di fare il minimo indispensabile, di nominare il dolore e la paura piuttosto che mostrarli, togliendo alla storia un elemento che sarebbe stato fondamentale per attribuirle la sensibilità di cui aveva così disperatamente bisogno. Ci sono momenti toccanti e non si può negare che, soprattutto con la storia di Anya (Ruth Codd) e quella di Natsuki (Aya Furukawa), si intraveda anche in questo adattamento dell’opera di Christopher Pike un potenziale altissimo dal punto di vista dell’evoluzione psicologica dei personaggi e dell’impatto che ha sulle loro vicende, tuttavia una gestione non brillante dei tempi narrativi e qualche sbavatura di troppo nella trama orizzontale rendono The Midnight Club un prodotto che non raggiunge mai del tutto quello che potrebbe essere il suo livello.
La serie horror ha infatti un difetto enorme: la scarsa capacità di gestire l’alternanza tra i racconti dei protagonisti e una trama orizzontale fin troppo prevedibile.
In una produzione in cui quasi la metà di ogni episodio è dedicata alla messa in scena delle storie dell’orrore che i ragazzi si raccontano a mezzanotte, bisogna mettere necessariamente in conto che questa decisione potrebbe creare evidenti problemi di ritmo. Il problema allora non è tanto l’inserimento dei racconti in sé, che derivano dal romanzo di Christopher Pike e che di per sé in alcuni casi sono avvincenti e terrificanti, quanto piuttosto nel non aver saputo trovare un equilibrio narrativo tra questi e la storyline principale, che per altro è sostenuta da un mistero troppo debole, la cui risoluzione parziale è facilmente prevedibile da chiunque abbia mai visto un film o letto un libro che contenesse qualche elemento di mistero.
È fuori discussione che i racconti di Ilonka e degli altri malati terminali siano imprescindibili per l’identità di The Midnight Club e alle volte hanno rappresentato le parti migliori della serie, come nel caso dell’angosciante storia delle due Dana narrata da Anya o di quella terrificante del serial killer di Kevin (Igby Rigney), ma la durata della loro messa in scena è spesso eccessiva e riesce solo in parte a mascherare le ingenuità presenti nella trama principale della serie.
Infatti, dopo un buon primo episodio capace di spaventare anche gli spettatori più temerari (e che non a caso è già entrato nel Guinness dei Primati per il maggior numero di jumpscare presenti in una sola puntata), sembra che The Midnight Club regredisca, perdendosi tra case infestate, sette e rituali senza mai soffermarsi troppo su nessuno di questi elementi. I due grandi colpi di scena che dovrebbero sconvolgere lo spettatore, ossia quello riguardante l’identità di Shasta/Julia e quello finale che coinvolge la dottoressa Stanton, erano entrambi ampiamente prevedibili e l’unica vera scossa alla trama è rappresentata dalla morte di Anya, anticipata da segnali chiari durante la prima metà della stagione eppure messa in scena con una sensibilità e una maestria che ricordano finalmente tutta la poetica e brutale bellezza delle precedenti opere di Flanagan.
Il settimo episodio di The Midnight Club, quello incentrato sul passaggio di Anya dalla vita alla morte e sull’accettazione da parte di tutti i suoi amici del destino che li attende, è il migliore della stagione per distacco, anche grazie all’interpretazione di Ruth Codd, senza dubbio colei che ha regalato la performance migliore all’interno della serie. La puntata rappresenta un punto di svolta non soltanto per la trama, ma soprattutto per l’evoluzione psicologica di personaggi fino a quel momento quasi bidimensionali, che finalmente acquistano personalità e consapevolezza. Va inoltre dato atto a Flanagan di aver saputo parlare del peso emotivo che accompagna una diagnosi di malattia terminale con realismo e senza scadere in banalità melense, mostrando come ognuno possa reagire diversamente, rifugiandosi nella fede, negando l’inevitabile, cercando di recuperare il tempo che non ha più.
Per quanto riguarda l’elemento horror, The Midnight Club fa uso di due differenti strategie: nella storyline orizzontale vi è un’abbondanza di jumpscare, tra fantasmi che appaiono da un momento all’altro e ascensori che prendono vita, mentre i racconti, pur molto diversi da loro per toni e tematiche, fanno paura perché si rifanno all’immaginario del perturbante, di ciò che dovrebbe essere familiare e invece non lo è. Questa alternanza funziona solo in parte, ma è sicuramente uno degli aspetti più interessanti della serie, che in alcuni rari momenti riesce nell’ambizioso duplice obiettivo di terrorizzare e inquietare, lasciando lo spettatore paralizzato dalla paura.
Non sappiamo ancora nulla di un’eventuale seconda stagione della serie, perché benché l’opera originale di Pike non abbia sequel, la scena finale del decimo episodio e la fuga di Julia sembrano presagire che la storia dei ragazzi di Rotterdam Home non sia ancora finita. Nel caso The Midnight Club venisse rinnovata, la speranza è che vi sia un deciso cambiamento nella gestione della trama e, ancora di più, delle tempistiche all’interno dei singoli episodi. Una storia come questa, che tenta di esorcizzare la paura della morte affrontandola in pieno, meriterebbe di essere narrata con maggiore consapevolezza e sensibilità e forse, visto quello che Flanagan e Netflix hanno saputo fare in precedenza, una seconda stagione della serie potrebbe renderle finalmente giustizia.