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The Whale: siamo insieme balene e capitani di noi stessi

The Whale
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Siamo balene e capitani, inseguiti e inseguitori, carnefici e vittime di noi stessi prima ancora che degli altri. Siamo uomini stanchi, vittime di sensi di colpe e di colpe effettive, giudici severi dei nostri fallimenti, critici implacabili dei nostri successi. Siamo balene e capitani, ogni giorno, ogni ora del giorno, avvinti dall’ossessione e tormentati da chi ne è ossesso. C’è un destino implacabile che aleggia attorno a noi, che ci insegue e si accanisce, che vuole la nostra sofferenza, la nostra condanna per una colpa che non sappiamo neanche di aver commesso. In The Whale c’è il giudice e il giudicato, l’ossesso e l’ossessionato, il colpevole e il colpito. Ma questi due poli, queste due anime si agitano in un unico uomo.

Da un lato c’è la balena.

C’è l’innocente, il buono, il giusto. Anzi, non c’è niente di tutto questo, perché qui non esiste morale. C’è solo la naturalezza del nostro essere, la capacità di muoverci senza fatica in un oceano grande che ci accoglie e sostiene, che ci conforta e permette di nuotare. Tutto è naturale, e tutto e niente è giusto, buono, semplice. Per quanto possiamo essere grandi e grossi, non siamo mai ingombranti, non siamo mai di troppo. Questo è Charlie a telecamera spenta, questo è l’insegnante di inglese che sentiamo, che immaginiamo nel fascino di chi sa avvincere con le parole, di chi sa trasportare i cuori, di chi sa amare. Tutto è normale e una balena scivola elegante, sbuffa e sfiata nell’oceano immenso che non le fa sentire il suo peso.

Charlie
The Whale (640×360)

E non capiamo cosa succeda, non capiamo perché ma d’improvviso diventiamo oggetto di un’ossessione, di una colpa che nel nostro oceano di natura semplicemente non esiste. D’improvviso nel nostro mondo si fa largo l’idea di destino e di colpa, di fuga e di caccia, di buono e cattivo. C’è un capitano, là all’orizzonte. C’è un destino che ci insegue e tormenta, che ci vuole morti e, prima ancora che morti, sofferenti. Da quell’oceano confortante siamo trascinati via, arpionati, estratti a forza e messi di fronte al nostro peso, a quella massa informe che diventa facile bersaglio, che ci rende goffi, pesanti, incapaci di fuggire.

Il capitano e l’ossessione non ci lasciano più, diventano parte di noi stessi, sono ‘noi stessi’ in The Whale. Perché non esiste capitano senza balena e non esiste balena senza capitano. Charlie è insieme queste due cose, inscindibilmente vittima della bellezza di un mondo che gli è stato tolto dopo rari istanti di una felicità oceanica e carnefice di un’oscurità che l’ha avvolto e che lui stesso nutre giorno dopo giorno, ferita dopo ferita, arpione dopo arpione, snack dopo snack.

Di colpo, usciti da quell’oceanico paradiso di natura ci scopriamo brutti, goffi, inutili e inseguiti.

Proviamo a fuggire ma il capitano non ci lascia mai: a costo della sua stessa vita ci rincorre e tormenta. E per un secondo ci rendiamo conto che la sua fine sarà la nostra fine, che entrambi vogliamo la stessa cosa: vogliamo morire, ma prima ancora, vogliamo soffrire.

Brendan Fraser
Charlie (640×360)

Qualcuno ha scritto che ci sono metodi più facili, veloci e immediati per uccidersi che non ingozzarsi. Quel qualcuno forse non ha capito che dietro il desiderio di morte ce n’è uno ancora più forte: quello di provare dolore. Non vogliamo semplicemente morire perché la morte sarebbe una liberazione e noi non meritiamo questa liberazione. Noi meritiamo di soffrire. E allora mangiamo e ci ingozziamo e lentamente ci vediamo abbruttiti e sfatti, pronti a punire il corpo per punire la nostra anima. In un attimo, in un’istante di pura lucidità in The Whale capiamo che siamo noi ad aver ingaggiato il capitano e che quel destino che ci tormenta è il destino che ci siamo scelti.

Lo scopo della nostra vita diventa così la nostra morte, da raggiungere attraverso l’ossessivo, ostinato, folle inseguimento della balena che c’è in noi. Attacchiamo The Whale, La Balena, perché è l’obiettivo più facile che abbiamo di fronte a noi, il colpevole più immediato da trovare, il capro espiatorio di tutto il nostro dolore. Se abbiamo perso l’amore, se la felicità non fa più parte della nostra vita la colpa è della balena. Non vogliamo tornare a essere felici vogliamo solo vendicarci con noi stessi per aver perso per sempre la naturalissima gioia che abbiamo vissuto un’istante di anni prima con il nostro compagno di vita e che ora non possiamo più vivere. È colpa nostra se abbiamo amato. Siamo stati puniti per aver amato. Continuiamo ad essere puniti per questo amore.

The Whale, la balena, è uscita dall’oceano, e si è scoperta brutta e disgustosa.

Così appare al capitano, così alla società che ci ripeteva che la nostra natura era sbagliata, corrotta, immonda, perversa. Noi pensavamo solo di essere noi stessi, di nuotare in quel mare, in quella natura, che mai ci aveva fatto sentire diversi. Ma ora il capitano e la società ci dicono che non siamo accettabili, che non siamo giusti, che siamo mostri.

The Whale
Sadie Sink nei panni di Ellie (640×360)

E allora lentamente iniziamo a vederci così: brutti e perversi, sporchi e pericolosi. Così si è sentito Alan, il fidanzato di Charlie, che non ha potuto far altro che consegnarsi al suo carnefice, al capitano che l’ha tormentato e inseguito per anni, che ha voluto ostinatamente la sua morte. Chissà se almeno nella morte l’oceano è tornato ad accoglierci. Così si sente Charlie che nutre dentro di sé la colpa e il carnefice, che tenta disperatamente di autopunirsi per non essere stato abbastanza. Per non essere riuscito a salvare il suo amore. Il capitano appare, ci ferisce, ci insegue. Alimenta la balena facendole del male, togliendole passo dopo passo parti di bellezza.

La deformità fisica è rifiuto del corpo, umiliazione di quel corpo da cui è venuta la colpa e a cui la colpa deve tornare. Eppure sotto quell’apparenza mostruosa, sotto quella massa che vorrebbe soffocare le emozioni interiori e nutrire le sofferenze fisiche, c’è ancora dell’altro. Sepolta in profondità rimane una balena che nuota nell’oceano, che cerca la bellezza di una natura che un tempo l’accoglieva e la faceva sentire bene. È la bellezza delle relazioni, di una figlia che amiamo ancora e ci fa mettere in dubbio la nostra pulsione di morte. A lei e alla bellezza delle sue parole vorremmo consacrare il nostro ultimo anelito di vita.

Alla bellezza della letteratura e dell’umanità, dell’emozione e dell’amore.

Sappiamo il perché di tante digressioni nelle descrizioni di capodogli e balene, sappiamo il perché di tanto cibo: stiamo solo cercando di nascondere le nostre emozioni e il nostro dolore, rimandarlo e ovattarlo sotto il grasso che ci soffoca il cuore. Cogliamo l’ipocrisia che è in noi, amiamo quella figlia che ce la sputa in faccia, che senza mezzi termini ci descrive disgustosi come siamo, come siamo voluti diventare, come gli altri ci hanno sempre voluto vedere. “Dite qualcosa di sincero!“, urlavamo a nostri studenti, disperatamente alla ricerca della verità dietro tanta ipocrisia, dietro quell’ipocrita società che ha condannato a morte il nostro più grande amore.

Finale
Finale di The Whale (640×360)

E ora l’autenticità è nella bocca di nostra figlia che ci ferisce e accusa, che trasformiamo nel nostro capitano, nel giudice che finalmente può condannarci. Vogliamo che sia dura, vogliamo che sia brutalmente sincera perché solo così possiamo scontare le nostre colpe e liberarci da esse. L’essenziale non è mai stato così ingombrante.

Così in The Whale fa Charlie che dona tutta la bontà che ancora possiede. Lui che da balena di sé stesso si getta in mano al capitano e carnefice, che in quella luce finale, tra le parole più sincere che può ascoltare, nell’atto di estrema forza e amore, può finalmente liberare sé stesso. Non c’è salvezza per la balena e per il capitano, se non questa. Lo sa la balena e lo sa il capitano. E allora l’uno trascina l’altro a fondo, compenetrandosi l’un l’altro nelle colpe, nei dolori e nell’autodistruzione. Perché siamo insieme balene e capitani di noi stessi. Chissà se almeno nella morte l’oceano è tornato ad accoglierci.

A Brendan Fraser, che ci ha fatto commuovere e scoprire che anche nel dolore autodistruttivo di un capitano può esserci la bellezza di una balena