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Them – la Recensione: l’agrodolce ritratto della resilienza umana

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Nel periodo della Grande Migrazione, molte famiglie afroamericane si trasferirono dal Sud degli Stati Uniti verso la California per lavorare nelle zone industriali e avere una possibilità di lasciarsi alle spalle le leggi.
La prima stagione di Them, nuovo horror antologico Amazon Original di aprile, ci racconta la storia di una di queste famiglie – gli Emory – e dei loro primi dieci giorni a Compton, al 3011 di Palmer Drive. Il terrore da cui provano a fuggire è più crudo e reale di quanto possiamo aspettarci: se c’è un elemento in questi episodi che fa davvero paura non sono i mostri, ma gli esseri umani e i limiti oltre i quali riescono a spingersi.

Siamo nel 1953 e gli Emory cercano di allontanarsi il più possibile dal Nord Carolina, dove ha avuto luogo una tragedia che ha rischiato di distruggere in mille pezzi le loro vite. Ben presto scopriranno che quel dramma è lontano dall’essere superato, quando arrivano in un quartiere di soli bianchi e ad accoglierli trovano solo volti distorti dalla rabbia. Occhi inquisitori li fissano dal ciglio della strada, dietro le tende appena scostate per guardare avidamente lo spettacolo che va in scena nell’isolato: sono la prima famiglia nera a Palmer Drive e tanto basta a renderli un bersaglio.

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Il sogno degli Emory, lo stesso sogno americano di cui spesso si parla con le lacrime agli occhi e il cuore gonfio d’orgoglio, diventa un incubo e si sporca irrimediabilmente di odio.

È un tema, quello della discriminazione razziale, su cui si riflette sempre più spesso attraverso la serialità televisiva e che Them tratta in modo significativo. Sin da subito Lucky (Deborah Ayorinde) ed Henry Emory (Ashley Thomas), insieme alle figlie Ruby (Shahadi Wright Joseph) e Gracie (Melodie Hurd), percepiscono qualcosa di disturbante nel vicinato: si tratta della sensazione collosa di quegli sguardi insidiosi che di fatto diverrà il filo conduttore della serie. In dieci episodi il creatore Little Marvin e la produttrice Lena Waithe ci portano nel cuore sanguinante di una famiglia afroamericana tra tante, costretta a combattere demoni troppo vividi per essere semplicemente relegati a uno stato non reale.

La serie ci trascina in un abisso di atrocità in cui è difficile restare a galla. Inizia lasciandoci intravedere gli Emory prima dei fatti di Compton, quando durante una domenica mattina come molte altre qualcuno irrompe in casa strappando alle braccia di Lucky il figlio più piccolo, in una delle scene più devastanti della stagione. Il trauma che ne deriva creerà una crepa insanabile all’interno della quale continuerà a insinuarsi altro orrore, anche quando gli Emory proveranno a guardare avanti, nel tentativo di costruire un futuro meno doloroso. 

Il male messo al centro della scena vive tra i mostri “di dentro”, quelli nella mente degli Emory che non riescono a lasciarsi il passato alle spalle, e i mostri “di fuori”, incarnati dai vicini che legano bambole nere appese per il collo fuori dalle finestre e formano una calca di occhi e bocche maligne proprio nel vialetto di casa. Gli autori fanno un ottimo lavoro nel mostrarci la vessazione psicologica subita dai personaggi e la loro faticosa conquista della consapevolezza di sé. Messi allo specchio con i loro demoni interiori, Lucky, Henry, Ruby e Gracie tracciano una parabola perfetta della resilienza umana. È una lotta cruenta la loro, vissuta dentro e fuori la mente martoriata da una società che li porta allo stremo, quasi costringendoli a diventare quelle maschere stereotipate con cui vorrebbe vestirli.

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Tutto culmina nell’immagine di una famiglia che si tiene stretta, risoluta di fronte a chi vorrebbe piegarla. Non vediamo cosa accade agli Emory dopo questi dieci giorni a Compton. Non lo sapremo mai, perché quella che Them ci mostra è una battaglia non conclusa, che ancora oggi si svolge sotto i nostri occhi. Quella portata avanti da chi crede che esistano divisioni invalicabili tra un “noi” e un “loro”.

La serie trova la sua forza in ottimi sviluppi tematici, in una sapiente (e sinistra) scelta di brani per la colonna sonora e una resa registica straniante al punto giusto.

Ma la vera linfa vitale di Them è l’intensa interpretazione del cast. Nel rappresentare il dolore cocente della discriminazione gli attori protagonisti fanno un lavoro eccellente: visi contratti, pugni che si stringono fino a far sanguinare i palmi, occhi che perdono calore man mano che le vessazioni degli abitanti di Compton vanno a segno. È soprattutto grazie alla caratterizzazione dei personaggi se il messaggio di fondo risulta così crudo e immediato attraverso lo schermo. Il tutto dà vita a una storia da cui usciamo esausti e agghiacciati, esattamente quello che ci si aspetta da un buon horror psicologico

Se c’è una pecca nella serie è la risoluzione della vicenda di Betty Wendel. Il suo percorso, iniziato in modo impeccabile come personificazione dell’odio razziale, viene poi ridotto a una sottotrama slegata dal resto. Il (vano) tentativo di rovesciare le sue sorti per renderla solo una vittima di un diverso tipo di violenza rende meno incisivo il ruolo del personaggio nella trama principale. Si tratta fortunatamente di un rallentamento che non ha il tempo di togliere pathos alla storia degli Emory, che procede inesorabile, anche quando si fa difficile da guardare. 

L’obiettivo del creatore di far percepire agli spettatori il peso degli sguardi rabbiosi degli abitanti di Compton è quindi pienamente raggiunto. Nonostante Them abbia rischiato di portare in scena una rappresentazione fin troppo didascalica del tema del razzismo, il risultato è più che positivo, con una prima stagione che apre al suo pubblico ampi piani di riflessione da esplorare.

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