L’idea di cominciare una nuova serie su ragazzine cleptomani non mi entusiasmava più di tanto. Ma, pur di distrarmi dagli esami e dalla sessione estiva, l’ho guardata. E vi dirò, Trinkets è così piena di cliché e luoghi comuni dei classici film adolescenziali americani e delle serie del pomeriggio di Italia 1 che mi aspettavo di abbandonarla dopo due episodi.
Ma non è stato così. Anzi, nonostante la sovrabbondanza di elementi prevedibili e di personaggi stereotipati, è riuscita a tenermi incollata allo schermo. Sarà forse la familiarità con i personaggi che ti sembra di conoscere già; sarà la storia che, nonostante voglia mandare un messaggio, non si prende troppo sul serio facendo moralismi inutili o forse è la fotografia che a tratti mi ricorda quella di Skam (serie che ci ha fatto una piacevole sorpresa di cui parliamo in qui) o di My Mad Fat Diary, ma mi sono ritrovata a fagocitare con ingordigia questa serie nel tempo di una giornata. Certo, forse avrei fatto meglio a studiare per gli esami imminenti e vi sareste risparmiati questo lungo articolo in merito.
Partiamo dalla trama primaria. Semplice e chiara. Tre ragazze totalmente diverse tra loro si ritrovano a combattere un problema comune: la cleptomania. Niente di troppo stravagante, niente che garantirà a Trinkets la candidatura agli Emmy o la vittoria di Golden Globe, ma per lo meno è una trama liscia che fa il suo corso senza divergere troppo. Il che è un bene.
Le trame secondarie riguardano le vicende singole che accadono a ciascuna delle tre ragazze, riuscendo a non prevaricare mai la trama primaria, anzi finendo per convergere in quella rendendola più forte. Da una parte c’è la difficoltà di Elodie di ambientarsi in una nuova città; c’è la fragilità di Moe che vuole a tutti i costi rientrare in uno stereotipo che però non corrisponde al suo vero io; e, infine, c’è la malsana relazione che tiene prigioniera Tabitha.
Questi filoni sono quelli che, in qualche modo, ci portano a giustificare le azioni, seppure immorali, delle protagoniste. La serie ci fa entrare così tanto in empatia con loro che, per un attimo, ci ritroviamo a pensare che, in fin dei conti, quella che hanno è una reazione ragionevole. Certo, non vanno giustificate, vanno aiutate. Ma il loro comportamento riesce a intrigare proprio a causa di quell’amore perverso per qualcosa di pericoloso e illegale.
Un po’ come i ragazzini di Bling Ring, film del 2013 diretto da Sofia Coppola e basato su una storia vera. Sapevi che stavano commettendo un reato, ma vederli farla franca e divertirsi a casa dei vip aveva il suo fascino nonostante le scelte di regia fossero talvolta banali e scontate.
Ma torniamo a Trinkets e andiamo a vedere nel particolare le tre protagoniste.
La prima, che in tutto il pilot, ci dà l’impressione di essere la protagonista, è Elodie Davis. Timida, insicura e depressa, dopo la perdita della madre si ritrova ad andare a vivere col padre. Trasferitasi a Portland dal New Mexico, non ha alcun amico e questo elemento è ciò che la fa rientrare in uno degli stereotipi più diffusi nei film e nelle serie adolescenziali che hanno come ambientazione principale il liceo.
Elodie è la nuova arrivata, è sola. Non riesce a fare amicizia. La sua valvola di sfogo è il furto. Cerca anche un approccio con alcune compagne, tra cui proprio Tabitha e Moe, ma immediatamente viene respinta. Almeno fino a quando, dopo l’ennesimo furto, il primo a cui assistiamo, viene beccata e costretta a frequentare un gruppo di supporto per cleptomani. Una specie di Alcolisti Anonimi.
Ed è proprio qui, nei piccoli gesti di Elodie, che possiamo notare quanto il suo disturbo sia preoccupante. Nonostante al buffet ci sia roba gratuita messa a disposizione dei frequentanti, Elodie si guarda intorno e nasconde con fare furtivo due biscotti nella tasca. Ascolta i racconti degli altri partecipanti, mantenendo costantemente un’espressione fredda e impassibile. Ed è proprio grazie a quella espressione che è facile intuire che Elodie non ha alcun interesse a guarire. Anzi, ascoltare quelle testimonianze la tenta ancora di più.
Poi c’è Moe Truax. Moe che dal primo istante ci si presenta come la classica stronza alternativa che odia tutto e tutti. La classica bad girl che in realtà di bad ha davvero poco, infatti è più pericolosa l’apparentemente tranquilla Elodie. Moe è molto brava a scuola, è in lizza per trascorrere un semestre all’estero, in Corea, e si prende cura di sua madre. Ha una relazione segreta con uno dei bellocci della squadra di calcio. Insomma, mai giudicare un libro dalla copertina. Sotto i giubbotti di pelle, il vestiario quasi tutto nero, il piercing al naso e l’espressione costantemente imbronciata, Moe è la più fragile delle tre ragazze.
Lo si può intuire dal primo istante in cui lei, Elodie e Tabitha finalmente ci danno prova di cosa sono capaci. Moe le sfida a rubare qualcosa dal negozio in cui sono entrate. Chi avesse rubato l’oggetto più costoso, avrebbe vinto tutta la refurtiva. Ma una volta fuori vediamo che Moe, in realtà, ha preso uno degli indumenti meno costosi. Si giustifica con un’alzata di spalle perché tanto lei è quella tutta d’un pezzo che non deve dimostrare nulla a nessuno.
Ed è qui che si frega. È qui che tradisce il suo personaggio, rendendo visibile la sua vulnerabilità.
Moe non è una ladra, Moe non ha alcun problema di cleptomania. E, chiunque abbia prestato attenzione alle sue azioni, l’ha intuito già nell’episodio del sexy shop. C’è qualcosa che non torna nel suo personaggio. Elude le domande di Elodie riguardo cosa fa con la refurtiva. Sospetto, considerando quanto le altre due sfoggino o si vantino del loro talento. Cosa più che coerente con il loro disturbo.
Nell’episodio in cui lo confessa apertamente, sotto l’effetto di una Molly (MDMA), non è stato un grande choc, lo avevo intuito già alcuni episodi prima. Ciò che non mi è piaciuto è stato il modo in cui è stata trattata dalle altre due ragazze. Se Moe si trovava nel loro stesso gruppo di supporto era solo perché si era presa la colpa, essendo minorenne, per il furto fatto da un amico del fratello.
E, infine c’è Tabitha Foster che è tra i personaggi più stereotipati, sì, ma anche più interessanti della serie. Tabitha è la classica Queen Bee del liceo. Tutta trucchi e vestiti alla moda, quella che frequenta l’atleta più popolare e più ambito. Eppure, sotto quell’aria da perfettina, si nasconde una ragazza buona, insomma la classica storia della stronza dal cuore d’oro.
Fuori dura come la roccia e impenetrabile, dentro soffice e buona come una merendina Kinder Paradiso.
Sembra quasi che Tabitha viva due vite separate e inconciliabili tra loro. Da una parte quella pubblica, quella che mostra nei corridoi scolastici e sui social. Quella tutta feste e apparizioni pubbliche col fidanzato che emana Barbie e Ken vibes. Dall’altra quella della ragazza allo specchio, quella fragile, quella stanca delle continue violenze verbali e fisiche del perfetto Brady. Quella che cerca il rischio nel furto che diventa terapeutico, quella che è stanca di essere vittima e che, però, non sa come reagire. Almeno all’inizio.
Forse il suo è il personaggio che più di tutti ha avuto un’evoluzione in Trinkets. Da stronzetta snob con l’aria da perfettina a ragazza assennata non più disposta a mantenere le apparenze solo per fare bella figura. Finalmente si prende cura di sé e delle persone a cui vuole bene. Persone che hanno come unico fine il suo bene e che non le farebbero mai del male.
Anche la loro amicizia rientra, in qualche modo in uno stereotipo. Le tre non si rivolgono la parola a scuola, fanno finta di non conoscersi. Ma, una volta fuori, soprattutto grazie al gruppo di supporto che è la causa della loro amicizia, sono inseparabili. Complici sarebbe la parola più giusta. La complicità di queste tre ragazze è ciò che fa da collante in Trinkets.
Faccio una breve digressione. Avete presente quando nei film adolescenziali americani, dopo l’introduzione dei protagonisti (es. la sfigata, la bulla e la capo cheerleader) succede qualcosa che le terrà inevitabilmente legate? Qualcosa che le forzerà a restare unite e fare fronte comune? Un segreto, insomma. Uno di quelli a cui segue la classica battuta “Tutto questo non è mai successo, non fatene parola con nessuno” e poi puntualmente, succede qualcosa per cui vengono scoperte. Beh, questo è esattamente lo stesso espediente utilizzato in Trinkets.
Dapprima credevo si trattasse solo del gruppo di supporto. Ma c’è un altro elemento che le spinge ancora di più una verso l’altra e che, in qualche modo, è il presupposto che le porterà addirittura a farsi un tatuaggio uguale. E sto parlando del furto dell’auto di Brady. In quel momento hanno preso una decisione che inevitabilmente avrebbe avuto delle conseguenze. E chiaramente le avrebbe avute sul finale, presupponendo l’intenzione della produzione di mettere in cantiere una seconda stagione.
Insomma, nonostante sia una serie prevedibile e non tanto originale, Trinkets mi è piaciuta molto. Mi è piaciuto il modo in cui gli sceneggiatori hanno costruito e sviluppato ogni singolo personaggio e le rispettive storyline. Non c’è stato mai un momento in cui ho pensato che un’azione non fosse coerente con il personaggio. E non c’è stato mai un momento in cui ho pensato che fosse banale. Certo, ripeto, era prevedibile, ma mai banale. Non necessariamente qualcosa di prevedibile è un male.
Come ho detto anche all’inizio, ritrovare personaggi e situazioni che in qualche modo si conoscono già è confortante. E, nonostante questo, c’erano milioni di modi in cui i creatori avrebbero potuto sbagliare. Tante possibilità di ricadere nel banale o nel ridicolo, ma non l’hanno fatto. Non hanno sbagliato.
Certe inquadrature, certe ambientazioni, mi hanno ricordato dei film indipendenti che solitamente si vedono in concorso nei festival. Lente, insomma inquadrature che si prendono il tempo di raccontare. Ambientazioni caratterizzate da un frequente uso di colori forti e in contrasto tra loro. Al grigiore della sala degli incontri si contrapponevano i colori degli indumenti delle protagoniste che in quel momento spiccavano rispetto agli altri. Nel bar e nelle feste, predominavano luci colorate e arredamenti eccentrici a discapito di quelli sterili delle case delle o degli ambienti scolastici.
In più di un momento mi ha ricordato My Mad Fat Diary. Anche lì, nonostante si trattasse di una serie adolescenziale, scandita però dai ritmi televisivi, ogni inquadratura non era mai banale, mai veloce. Ogni ambientazione era curata nei minimi dettagli per far riemergere le atmosfere degli anni ’90. Non c’era la possibilità che ti perdessi nel superfluo. Era come se il regista, quasi come un tutor, ti guidasse nella visione. Niente di astratto o fuori dal comune, tutto chiaro e di facile comprensione.
E lo stesso succede in Trinkets. Perciò, se avete un po’ di tempo, vi consiglio di guardarla.