Con Tupac: il caso è aperto, Crime+Investigation ha dedicato una docu-fiction al mistero che avvolge da 22 anni la morte di Tupac Shakur, il guru dell’hip hop della scena americana degli anni ’90.
Mago del freestyle, esperto di letteratura shakespeariana, attore, rapper tra i migliori al mondo (passato, presente e, probabilmente, futuro), Tupac Shakur non ha mai avuto giustizia.
Benjamin Crump, avvocato per i diritti civili, si incarica di indagare sull’accaduto e cerca di andare a fondo nell’analisi della figura del rapper morto il 13 settembre 1996 a Las Vegas, crivellato di colpi in un agguato.
«Quando parlo dico solo la verità, anche se mi crea problemi, insomma, è quello che dovremmo fare tutti: non dico che dominerò il mondo né che lo cambierò, ma vi assicuro che, se aprirete la mente, cambierete il mondo».
È morto a solo venticinque anni e portava sulle spalle il peso di essere diventato l’emblema di una comunità afflitta da un legittimo senso di oppressione.
Oppresso lo era davvero, incastrato in un ruolo di gangster che non gli apparteneva, sensibile, colto, famosissimo, seguito come il nuovo Messia della comunità afro-americana.
Is there a Heaven for a Gangstar?
«Quando sarò morto, sarò morto, nessuno potrà fare niente, nessun giudice, nessun presidente, nessun governo: potranno venire al mio funerale e vedere quanto soffrono i neri».
Amatissimo, idolatrato, “come Malcom, come Martin”, la sua morte non ha risposta, non ha senso, non ha ancora un mandante o un colpevole.
Tupac: il caso è aperto indaga la morte di Tupac. Ma chi era Tupac Shakur, per tutti quelli che non hanno avuto la fortuna di vivere nella sua epoca?
«Pac era un fenomeno, era un genio, un soldato, un combattente, un poeta, un amante, un profeta… un giovane re».
Così lo descrive il fratello Mopren Shakur. E non è certo una descrizione esagerata, perché Tupac era veramente un portavoce, un rapper che non ha alcuna affiliazione con ciò che è oggi la musica rap.
Tupac era parte di una realtà socio-culturale a sè stante. Se molti di noi lo conoscono per la sua hit più famosa, California Love, Tupac Shakur era in realtà un rivoluzionario menestrello della propria epoca, e della propria gente.
Figlio di un’attivista rivoluzionaria dei Black Panther e di un padre assente, cresciuto nei bassifondi dei peggiori sobborghi della provincia americana, “sembrava che in lui ci fosse uno scopo, un destino già scritto”.
Era un prescelto, perché nelle sue vene scorreva l’innata ribellione dei veri fenomeni, di chi ha vissuto la strada, e ne è sopravvissuto.
L’inizio degli anni ’90 (ma, diciamolo, tutta la storia americana) è contraddistinto da costanti soprusi nei confronti della cultura afro. Questi sfociarono il 3 marzo 1991 nel brutale assalto a Rodney King, tassista di colore incomprensibilmente aggredito dalla polizia di Los Angeles.
A seguito di questa aggressione, la città degli angeli venne messa a ferro e fuoco dalla comunità nera, indignata dall’assoluzione dei poliziotti, nella famigerata rivolta di Los Angeles.
Un clima di tensione, di degenerazione e sofferenza male anestetizzata che Tupac seppe descrivere magistralmente in Brenda’s got a baby, trasposizione della parte più dimenticata della società americana, così controversa, oppressa e ingiusta.
Questa docu-fiction in sei puntate mette sotto la lente di ingrandimento la controversa e sovversiva famiglia di Tupac Shakur e la terribile notte della sua morte, iniziata con un combattimento di pugilato di Mike Tyson, la rissa con Orlando Anderson, membro della gang Southside Crips, e terminata con il suo corpo esanime, crivellato di colpi.
Chi ha ucciso Tupac Shakur?
Sono passati più di vent’anni e nessuno ha ancora una risposta concreta. È stato malauguratamente coinvolto in una faida tra gang? D’altronde, Tupac veniva dalla strada, era cresciuto tra retate della polizia, conflitti a fuoco e spaccio di crack senza limiti.
Ha scelto la casa discografica sbagliata, la Death Row Record? La Death Row, che, tra gli altri, annoverava tra i propri artisti, Dr. Dre, Snoop e Mc Hammer non aveva buoni rapporti con la Ruthless Records verso la quale Suge Knight, capo della Death Row, non smise mai di provare odio acuto.
È stata una pedina nella eterna lotta tra rapper della East Coast e della West Coast? Dopotutto, solo sei mesi dopo morì un altro importante esponente della fazione avversa, quel Notiorious B.I.G. reso famoso per canzoni come “Mo money mo fame” e per il tributo che gli rese Puff Daddy “I’ll be missing you”.
Oppure c’erano di mezzo donne, denaro, affari o ricatti?
Tupac: il caso è aperto si pone molte domande e alcune resteranno di certo senza una vera risposta.
Controverso tra l’altro è il periodo storico in cui si svolgono i fatti.
L’inizio degli anni ’90 segnava una estrema recrudescenza dei rapporti tra comunità nera e le forze dell’ordine, nata all’inizio della storia degli Stati Uniti d’America. Una diffidenza reciproca che, ancora oggi, porta a soprusi da parte delle forze dell’ordine americane nei confronti dei cittadini di colore, come, tra i tantissimi, Trayvon Martin o Tamir Rice.
Non a caso, quando viene addotta come causa della non-soluzione del mistero sulla sua morte la totale assenza di testimoni, Benjamin Crump afferma che se invece di Tupac ci fosse stato Elvis Presley, gli assassini sarebbero stati trovati.
Non ho dubbi al riguardo.
Tupac Shakur esprimeva rabbia, desiderio di giustizia, rivendicazione dei propri diritti, in un rap che ti cadeva addosso come una pioggia di pallottole, come pugni dritti in faccia durante una rissa.
La sua morte ha segnato una generazione, non solo di amanti del rap più genuino, duro e sincero, ma anche di un’etnia che cercava di rivendicare il proprio ruolo nella società americana che non aveva mai avuto posto per loro.