ATTENZIONE: la recensione contiene spoiler su Tutta la luce che non vediamo, la miniserie Netflix con Mark Ruffalo e Hugh Laurie!!
La luce e il buio, lo sfavillio acceso e l’oscurità lugubre e asfissiante. Splendore e tenebra abitano lo stesso mondo, le stesse vie calpestate all’infinito, gli stessi campi di battaglia, le stesse mura fortificate delle città. Il mondo, come l’animo umano, è fatto di zone d’ombra e coni di luce. È costruito sull’alternanza di chiaroscuri: a volte prevale il bagliore avvolgente del sole, altre volte l’ottenebramento di ogni forma di colore. Il cervello è rinchiuso nell’oscurità totale. Galleggia in un liquido trasparente dentro il cranio, senza mai vedere la luce. E tuttavia, il mondo che costruisce nella nostra mente è pieno di luce. Trabocca di colore e movimento. E dunque, bambini miei, come fa il cervello, che vive senza uno sprazzo di luce, a costruire per noi un mondo pieno di luce? Anthony Doerr ha scritto un romanzo meraviglioso nel 2014. Sulla guerra, sulla resistenza dei francesi, sui conflitti, sull’amore, sulla cecità e sulla luce. Tutta la luce che non vediamo ha vinto il Premio Pulitzer e la Medaglia Andrew Carnegie per l’eccellenza nella narrativa. È stato subito un best-seller e il New York Times lo ha inserito nella top10 dei migliori libri del 2014. La storia di Marie-Laure, della sua Saint-Malo, del giovane soldato Werner e del Professore, è rimasta su carta fino a che Shawn Levy (regista di Una notte al museo, The Adam Project e di otto episodi di Stranger Things) e Steven Knight (il creatore di Peaky Blinders, che avrà degli spin-off, e Taboo) non hanno pensato bene di trasformarla in una piccola perla televisiva, rilasciata il 2 novembre da Netflix nel suo catalogo.
All the Light We Cannot See è una miniserie in quattro episodi, con una sceneggiatura coinvolgente, una regia delicata e un cast niente male.
Tra i personaggi principali compaiono Mark Ruffalo nei panni di Daniel LeBlanc, il padre della giovane protagonista, Louise Hoffman (la star di Dark) in quelli della recluta tedesca Werner, e Hugh Laurie nelle vesti dello zio Etienne, un ex eroe di guerra assoldato dalla Resistenza. La protagonista, invece, Marie-Laure, è interpretata da Aria Mia Loberti, e tra i personaggi ricorrenti ci sono anche il soldato nazista Lars Eidinger (Babylon Berlin), Marion Bailey (The Crown) e Andrea Deck (Homeland). Ciascuno di loro riesce a calarsi nel ruolo con un garbo e una sensibilità quasi toccanti. I personaggi sembrano effettivamente venuti fuori da un romanzo storico, polverosi, romantici, poetici. La storia è ambientata alla fine della Seconda Guerra mondiale, precisamente nelle settimane in cui dal cielo piovono le bombe degli Alleati che stanno per liberare la Francia dall’occupazione tedesca. Hitler spara le sue ultime cartucce, le unità dei nazisti sono decimate, sfibrate e male armate. Nel nord della Francia, a Saint-Malo, inglesi e americani colpiscono i loro obiettivi con precisione chirurgica, come se qualcuno fornisse loro indicazioni dettagliate da terra. E in effetti, i gruppi della Resistenza sono molto attivi nel nord della Francia. Tra loro, Etienne LeBlanc e suo nipote Daniel, provano a fornire agli Alleati le informazioni necessarie per procedere alla liberazione. Attraverso quale strumento? Una vecchia radio dalla quale, prima della guerra, un professore parlava ai bambini di scienza, luce e oscurità.
Aprite gli occhi e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre.
Daniel (Ruffalo) è un padre amorevole che costruisce modellini delle città per la sua bambina non vedente, sperando di aprirle qualche squarcio su un mondo che, per lei, è irrimediabilmente buio. Marie-Laure è una ragazza cieca dalla nascita, coraggiosa e curiosa. Ascolta il professore alla radio, di notte, e prova a scoprire il mondo attraverso le sue lezioni. Quando suo padre lascia Saint-Malo per depistare i tedeschi e proteggere un preziosissimo (e maledetto) diamante, e suo zio Etienne è costretto dalla Resistenza ad allontanarsi momentaneamente dalla città, Marie-Laure cerca di mantenere in piedi la rete di messaggi criptati che aiutano di nascosto gli americani a individuare le postazioni nemiche. Affamata, sola e cieca, la ragazza dovrà affinare ancor di più i suoi sensi per sopravvivere in un mondo di distruzione. Ogni cosa ha una voce, devi solo ascoltarla. Dall’altra parte della città, sintonizzato proprio sulla sua frequenza, c’è Werner, un ragazzo orfano finito nell’esercito tedesco a combattere per il Führer e a decrittare messaggi in codice per i nazisti. Mente brillante, genio precoce, Werner era un bambino triste trasformato in un uomo a suon di botte e pratiche violente, ricevute in una scuola elitaria per ariani “speciali”. Da bambino, insieme a sua sorella, si sintonizzava di nascosto sulla frequenza del Professore e ascoltava estasiato le sue lezioni. Era il suo momento di evasione, il giubbotto di salvataggio che lo riportava in vita ogni volta che si sentiva sprofondare.
La guerra cambia tutto, a partire dalle persone. Incattivisce, distrugge, ingoia ogni colore, spegne la luce.
Ma All the Light We Cannot See vuole insegnarci a mantenere sempre accesa una piccola fiamma. Il mondo è un posto orribile e, a volte, chi possiede la vista non è un privilegiato. La miniserie Netflix sembra tremendamente attuale e probabilmente lo è, perché, pur essendo un period drama ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, parla degli orrori di ogni guerra, del sonno della ragione e di tutta la luce che non vediamo. Dio è un occhio bianco e freddo che non fa che ammiccare mentre la città viene gradualmente ridotta in polvere, scriveva Anthony Doerr. Ma la Storia è come il grosso pendolo di Foucault esposto nel Pantheon di Parigi, che continua ad oscillare sempre, in un moto perpetuo, anche quando tutto intorno sparisce, i personaggi muoiono e le guerre finiscono. Tutta la luce che non vediamo è una frequenza disturbata nel gran marasma del conflitto. Per decifrarne i messaggi bisogna restare in ascolto, affinare gli altri sensi, cercare una luce interiore prima ancora che esteriore. Ma anche il colpo d’occhio non è male. Saint-Malo ha il suo fascino, l’oceano è uno sfondo sfocato, che dà alla serie quella sensazione di oscillazione perpetua, di instabilità perenne che le persone non vedenti purtroppo conoscono bene. La regia sa cogliere i particolari, riesce ad andare al cuore caldo delle cose, spingendo i personaggi a rivelare se stessi nella luce. Tutta la luce che non vediamo è una serie luminosa. Non solo sotto l’aspetto estetico, dove alle scene dei bombardamenti notturni si sovrappongono quelle – molto più lunghe – ambientate alla luce del giorno. Ma anche da un punto di vista più squisitamente spirituale. Vuole essere una crepa nella tavolozza nera delle guerre e parlare invece d’amore. Quello tra due giovani i cui destini si incrociano per caso, così come quello di un padre per la figlia, di un ragazzo per sua sorella, di un vecchio professore per la conoscenza e la speranza. Hugh Laurie ha dato vita forse al personaggio più interessante della miniserie Netflix, un profilo che nel libro viene indagato più a fondo – insieme al contesto storico, che ha un ruolo preponderante – ma a cui Tutta la luce che non vediamo rende comunque giustizia, lasciandolo sospeso in quell’alone di misterioso romanticismo in cui bazzicano i personaggi tragici.