Vanilla Sky è stato a lungo sottovalutato e solo successivamente è riuscito a conquistarsi il meritato status di cult. Al tempo, infatti, i media erano più interessati all’aspetto alla Mr. & Mrs. Smith dell’opera che al film stesso, oscurandone il valore per poterla vedere come la pellicola in cui Tom Cruise si era innamorato di Penelope Cruz e aveva lasciato Nicole Kidman. In più, è un remake americano dello spagnolo Apri gli occhi, diretto da Alejandro Amenabar. Inevitabile, dunque, il paragone tra le due pellicole; eppure in questo modo si fa un torto all’opera di Cameron Crowe. Infatti, pur essendo fedelissimo all’originale, è come se il regista avesse reinterpretato il film di Amenabar, aggiungendo strati su strati che l’hanno reso un qualcosa di a sé stante rispetto al materiale di partenza. Lo stesso Amenabar ne elogiò le differenze, dicendo:
“Vanilla Sky è così fedele allo spirito originale quanto irriverente verso la sua forma, e questo lo rende un’opera coraggiosa e innovativa. Penso di poter dire che, per me, i progetti sono come due fratelli molto speciali. Hanno le stesse preoccupazioni, ma le loro personalità sono piuttosto diverse“.
Succede fin da subito, prima di arrivare alla storia d’amore (che è l’aspetto più caratteristico di Crowe nel film), nell’iconica e significativa scena di apertura di Vanilla Sky.
Vediamo Manhattan, ripresa dall’alto in basso e in scala larga, così da puntualizzare immediatamente la paura dell’altezza del protagonista David Aames. Sorvoliamo il Dakota Building, un edificio ritenuto maledetto (tanto che Roman Polanski ci ambientò Rosemary’s Baby) e che ha ospitato innumerevoli celebrità, tra cui Lauren Bacall, Judy Garland, Liza Minelli e in particolare John Lennon; ed è proprio davanti a quel portone che quest’ultimo venne assassinato. Nel mentre, udiamo la canzone di Paul McCartney con lo stesso titolo del film e, se è voluto (e sapendo della conoscenza musicale di Crowe, quasi sicuramente lo è), è davvero geniale. Passati i titoli, sentiamo la prima battuta, riferita all’opera originale e pronunciata dalla Sofia di Cruz e che si trasforma nella voce della Julianna di Cameron Diaz: “Apri gli occhi”. Intanto, risuona Everything in Its Right Place dei Radiohead, sottolineano la normalità del momento. Solo che di normale non c’è niente. Perché Times Square è vuota, deserta, priva di persone. Una metafora che potrebbe rappresentare l’annegare di David nel mondo moderno o la sua paura della solitudine; in qualsiasi caso, abbiamo di fronte una intro iconica, memorabile e da studiare in qualsiasi scuola di cinema.
E questa prima scena rivela già lo strato citazionistico e denso di significati del film di Crowe.
Identificativo per il personaggio di Sofia è Sabrina con Audrey Hepburn, pellicola proiettata a casa di David. La storia d’amore tra i due è rappresentata in stile Nouvelle Vague, molto amata dal protagonista come si vede dai poster di Jules e Jim e Fino all’ultimo respiro appesi nel suo appartamento. Inoltre, fondamentale è l’episodio di Ai confini della realtà intitolato Il teatro delle ombre, visibile nell’opera di Crowe: racconta di un uomo condannato per omicidio, convinto però che il suo mondo sia, in realtà, un incubo e, invano, prova a farlo capire a chi lo sta giustiziando; primo indizio della direzione verso cui andrà Vanilla Sky. Non dimentichiamoci, però, del cameo di Steven Spielberg, dell’azzeccatissima colonna sonora e del quadro di Monet La Seine à Argenteuil. Infatti, è da quest’ultimo che deriva quel Vanilla Sky traducibile con “cielo color vaniglia”, a indicare la fittizia realtà del film, dove il cielo non è più azzurro ma di un altro colore.
Del resto, la vita di David è troppo perfetta per essere vera. Ha soldi, fascino, gli amici giusti (come cantano i R.E.M in sottofondo) e Cruise è nato per interpretare principalmente due ruoli: il superuomo alla Mission Impossibile e l’affascinante figlio di papà, come in Vanilla Sky. Sarà alla sua festa di compleanno che incontra la donna che fa fermare ogni cosa, quella Sofia di cui si innamora istantaneamente, magicamente, come fosse il protagonista di una canzone. Dopo un tipico dialogo alla Crowe sulla dolcezza e amarezza della vita, ecco che ci viene tolta la prima certezza. La conversazione, che pareva una sessione dallo psicologo, si trasforma in un interrogatorio operato dall’emblematico dottor Curtis McCabe, interpretato da un ottimo Kurt Russell. Questa spalla amica, saggio terapeuta e fidata figura paterna si rivelerà essere, in maniera scioccante, un’intelligenza artificiale generata dal computer e basata sui sogni e sui desideri di David che, in quel momento, mentre parla con McCabe, si trova in prigione, accusato di omicidio e ha una maschera bianca che gli copre il volto.
Ed è attraverso il racconto di David allo psichiatra che entriamo nella sua mente, capendo cosa si cela al suo interno e spostando l’asse del film verso il thriller psicologico. E non solo.
Allo stesso modo di Julianna che guida la macchina fuori strada in una scena statica, inquietante e quasi al rallenty, anche la pellicola fuoriesce dalla rotta prescelta. E quella maschera ne è il simbolo. David nasconde le sue fragilità dietro di essa, sia fisiche che psicologiche, e lo trasforma in un fantasma ignorato dal mondo. E, se pensiamo a come di solito vediamo il volto sorridente e perfetto di Cruise, è un risultato stupefacente e mostra le potenzialità di un film che umanizza il più granitico degli attori. Vanilla Sky, qui, tocca punte di horror, anticipando il colpo di scena forse non percepibile alla prima visione: David crolla sul marciapiede e, al suo risveglio, c’è qualcosa che non va, come i suoni, i colori e quel cielo psichedelico. Solo dopo comprendiamo che è da questo istante che inizia il suo sogno lucido, ovvero un programma che permette di sognare nonostante sia congelato criogenicamente. Ed è da ora che Vanilla Sky ci risucchia negli incubi del suo protagonista.
Lo straniamento non fa che aumentare, attraverso i dialoghi subdolamente rivelatori, le scene di sesso pieni di stacchi netti e freeze-frame, le linee temporali che si accavallano e Sofia e Julianna che si scambiano. Il dolce viso di Cruz switcha con il volto sinistro di Diaz, rappresentando le due facce dell’amore, entrambe illusorie e presenti in David. Piano piano si arriva al culmine, in cui la trama si adatta magistralmente alla colonna sonora e viene svelata la verità sulla realtà in cui vive David, virando dunque sulla fantascienza. Magari i progressi tecnologi odierni lo rendono meno efficace, ma rimane l’ambiguità e le domande che un qualcosa come il Life Extension genera in noi: è meglio una vita con rimpianti ma vera o un’esistenza forgiata sui nostri sogni e desideri ma immaginaria? Nemmeno la fine di Vanilla Sky scioglie definitivamente il dubbio, con quell’ultimo commovente scambio tra Sofia e David, in cui lui ricorda una delle frasi di lei, ovvero “Ogni minuto che passa è un’occasione per rivoluzionare tutto completamente”. Così, smette di fossilizzarsi su quell’unica sera e, buttandosi dal tetto, sceglie un’esistenza reale, anche se quello che troverà non sarà più il suo mondo. E chissà, prima o poi arriverà il loro lieto fine, magari da gatti, come amava dirgli lei scherzosamente.
Vanilla Sky è complesso, non se ne può perdere un minuto. E la sua difficoltà deriva anche da come è costruito, in modo tale da poter trasmettere significati diversi alle persone che, guardandolo, possono dargli la loro interpretazione. Crowe stesso ha affermato che, in verità, ce ne sono 5 sul finale: Supporto tecnico dice la verità su David e sul sogno lucido; l’intera storia è un sogno e la data dell’adesivo sull’auto di David lo dimostra (non esiste il 30 febbraio); David è in coma dopo l’incidente e sogna; è tutta la trama del libro del migliore amico di David, Brian; ciò che succede dopo l’incidente è frutto dell’allucinazione dei sedativi che David prende per l’intervento al volto.
Qualsiasi interpretazione gli si possa dare, Vanilla Sky ci ricorda che siamo la somma delle nostre scelte e il risultato delle esperienze vissute. Spaziando liberamente nei generi, perdendosi tra sogno, realtà e sogni a occhi aperti, ci rivela che la nostra esistenza è fatta di piccole cose e, come dice David nel finale, “Le piccole cose … Niente è più grande, vero?”. Ci parla della pericolosità del nostro inconscio (che nega spesso che il problema siamo noi e non qualche cospirazione esterna), del sogno, delle nostre paure soprattutto in riferimento alla morte, ma anche a quelle che ci frenano nel raggiungere la vera felicità. Ci fa riflettere sulla concretezza del nostro mondo e sul modo in cui la cultura pop ci influenza, finisce per definire la nostra identità e diventa il filtro di come vediamo la realtà e l’amore. Crowe lo ritiene un film:
“in parte una canzone pop, in parte favola, in parte poesia e in parte una conversazione a tarda notte impegnata in cui le grandi idee scorrono liberamente”.