“Nel paese della bugia la verità è una malattia” (Gianni Rodari).
Tra il 1997 e il 1998 in due paesi della Bassa modenese, Mirandola e Massa Finalese, venti persone furono accusate di far parte di una setta di satanisti pedofili. A seguito delle denunce di un bambino, altri 15 minori furono allontanati dalle loro famiglie, che non rividero mai più. Veleno parte da un agghiacciante caso di cronaca per costruire una narrazione che si emancipa dal podcast originale di Pablo Trincia e Alessia Rafanelli per diventare un prodotto documentaristico a tutto tondo, che coniuga indagine e giornalismo d’assalto.
Amazon Prime Video punta chiaramente a competere con questa docuserie con la più popolare Neflix in materia di narrazione e inchiesta. E ci riesce, convocando tutte le parti in causa, anche se non sempre “osa” fino in fondo. Ma stiamo parlando di una ferita ancora aperta, nonostante siano passati più di vent’anni: una ferita che, da qualche anno, ha ricominciato a sanguinare.
La narrazione di Veleno, tra il podcast, la ricostruzione con attori e le tantissime testimonianze dirette, ci fornisce il quadro di una vicenda che pare uscita da un libro horror. Dopo la denuncia di un bambino di appena cinque anni, un’epidemia si diffonde per due paesini della Bassa Modenese, come un morbo biblico: 16 bambini verranno strappati in piena notte dai loro letti, caricati su volanti della polizia e spediti verso un’altra vita.
Il bambino, seguito dai servizi sociali e in affido a un’altra famiglia, fa confessioni a una psicologa che fanno drizzare i capelli: prima parla di abusi domestici, in cui sarebbero coinvolti suo padre biologico e suo fratello, poi alza il tiro. Racconta di messe nere, sacrifici rituali, uccisioni di bambini, tombe scoperchiate. A capo della setta ci sarebbe il parroco che si prende cura della sua famiglia d’origine, Don Giorgio Govoni. Dietro la facciata di prete forse anticonformista, ma sempre attento agli altri, si nasconderebbe un servo del demonio che ha creato la sua chiesa a rovescio all’interno della comunità di Massa Finalese.
I suoi adepti, secondo i racconti del bambino, sono altri adulti che lui non conosce o conosce solo indirettamente: sono genitori di bambini che, senza uno straccio di prova, saranno privati per sempre dei loro figli. Gli stessi figli, a un certo punto, delineeranno un quadro desolante e terrificante fatto di omicidi rituali, abusi, violenze sessuali inenarrabili e pedofilia: il tutto orchestrato dai genitori. Troppo orribile per poter essere ascoltato.
Troppo orribile, forse, per essere vero.
“Per sapere la verità bisogna ascoltare due bugiardi” (Proverbio veneto).
Ai genitori delle famiglie a cui vengono strappati i figli qualcosa non torna: non è solo la loro coscienza pulita a gridare giustizia, ma anche gli stessi racconti dei minori, che vengono filmati dagli psicologi e dai giudici.
Tutto è troppo costruito, troppo cinematografico per essere vero: come può un paese in cui anche un sasso che cade fa rumore, ignorare o non notare una tale barbarie? Le proteste dei genitori vengono ignorate, la rabbia scambiata per aggressività e la disperazione inconsolabile come ammissione di colpa: la madre di una delle bambine accusatrici, Francesca Ederoclite, non reggerà la perdita della figlia e si lancerà nel vuoto.
Poco dopo, la figlia racconterà di come sua madre la facesse prostituire a casa di sconosciuti: possibile che un bambino, un essere per definizione considerato innocente, possa mentire? Possibile che per la madre possa avere parole così dure e spietate?
Possibile invece che la verità di Veleno, per quanto inaccettabile, sia proprio in quelle interviste e in quelle ricostruzioni?
Veleno instilla il dubbio continuamente, come il morso di un serpente mai sazio: la reazione istintiva dello spettatore è ribellarsi a quello che appare come un castello di menzogne. Non può essere vero, non si può accettare che in famiglie normali, umili e persino povere, ma che appaiono tutto sommato amorevoli, si nascondano orchi di una tale portata. Deve esserci qualcosa che non va: forse sono i bambini, i veri Diavoli della Bassa Modenese, titolo con cui questa vicenda è stata battezzata e ha ricevuto notorietà su tutta la stampa nazionale.
Il volto perfido dell’infanzia è la prima, inaccettabile verità, con la quale Veleno ci chiede di scendere a patti. I bambini, come gli adulti, possono ferire, possono fare male e soprattutto possono mentire. Ma scavando in profondità alcuni genitori coraggiosi, aiutati successivamente da Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, scopriranno una verità ancora più atroce.
“La realtà è sbagliata. I sogni sono veri” (Tupac).
La narrazione di Veleno prende una svolta inaspettata, dopo una prima metà di puntate comprensibilmente compilative, quando chiama tra i suoi “testimoni” la psicologa Giuliana Mazzoni. La tesi della professoressa è impietosa: le ricostruzioni pittoresche di rituali e abusi non sarebbero altro che un castello non di bugie, ma di falsi ricordi.
A indurre i bambini non a mentire, ma a creare una realtà parallela che ha ormai monopolizzato il loro cervello sarebbero stati gli stessi psicologi che tenevano i colloqui, gli “angeli custodi” di ogni bambino maltrattato. Il risultato di questa tesi è l’ennesimo abuso compiuto su bambini che ora sono giovani adulti ancora molto provati da ciò che hanno vissuto e, soprattutto, credono di aver vissuto. Il “bambino Zero”, da cui è partita l’indagine, confessa in lacrime a Pablo Trincia e Alessia Rafanelli (nella loro versione di reporter d’assalto de Le Iene) di aver creduto per anni di aver ucciso delle persone e di sentirsi perso.
Lo strazio che Veleno delinea, tra le famiglie smembrate e i loro figli asportati, assume i contorni di un sogno a occhi aperti che sprofonda nell’incubo.
“Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità” (Arthur Conan Doyle).
In Veleno tutte le parti in causa sono chiamate a portare la loro verità. Dai bambini che ancora oggi sostengono di essere stati abusati, ai genitori che non si rassegnano e continuano a spedire loro lettere che non riceveranno mai risposta, alla psicologa che, secondo la tesi della difesa, avrebbe indotto nei bambini falsi ricordi con domande tendenziose e un atteggiamento eccessivamente empatico. Persino Claudio Foti, lo psicologo fondatore del centro Hansel e Gretel, salito agli orrori delle cronache per la triste vicenda degli affidi illegali di Bibbiano, denominata Angeli e Demoni.
Di nuovo il bene contro il male, anzi contro il Maligno: Veleno congiunge vent’anni di storia italiana con un’ultima puntata che non approfondisce a sufficienza quello che sembra proprio l’epilogo di una amara saga familiare.
La docuserie sceglie di concentrarsi sul racconto minuzioso delle vicende, che sono particolarmente complesse e vedono intrecciarsi decine di persone e diversi nuclei famigliari. La componente drammaturgica, per quanto riguarda le ricostruzioni, non convince appieno: le testimonianze dirette dei protagonisti, oltre alla montagna di materiale indiziario e processuale, sarebbero abbondantemente bastate.
L’impressione è che Veleno sia la risposta di Amazon Prime Video a quello che, fino ad ora, è stato il prodotto italiano di punta per quanto riguarda il genere docuserie: SanPa di Netflix (che abbiamo recensito in questo articolo). Anche lì la verità era una faccenda complicata, sempre sul filo del rasoio tra l’eccesso di colpevolismo, l’accanimento sadico e la decisione di non approfondire alcuni aspetti su cui lo spettatore continua a interrogarsi.
Non è certo una colpa di Veleno e dei suoi autori se su nessuno di questi ragazzi, ormai adulti, è stata effettuata una contro perizia psicologica per valutare il presunto “plagio” o se sussistono effettivamente tracce di un vissuto di violenza. Ma l’aspetto degli inganni della mente e di come può essere manipolata non viene approfondito per lasciare spazio a una narrazione riepilogativa in cui chiunque ha la possibilità di dire la sua.
L’occhio di Veleno è discreto, oggettivo, quasi neutrale, nonostante sia tratto dal podcast di un autore che sulla vicenda ha le idee ben chiare e che ne diventa addirittura protagonista. Per questo la parola andava data totalmente, anche visivamente, ai protagonisti reali. Manca, nonostante la fortissima portata emotiva della vicenda, uno sguardo sulla verità storica, cosa che invece in SanPa costituiva il cuore pulsante della narrazione.
Dei protagonisti di Veleno ci viene mostrato troppo, fin da subito, per provare quel senso finale di strazio e dolore che porta vedere i risultati di decine di vite distrutte. Manca, insomma, il senso della camminata finale verso il mare della figura cristologica di Fabio Cantelli, che per tutta la durata di SanPa abbiamo visto solo nei filmati d’epoca o nella solitudine anonima e buia di una stanza d’albergo.
Mostrare gli effetti devastanti di anni di dolore, confrontare i protagonisti dei filmati originali dell’epoca con il pallido fantasma che sono oggi, invece di affidarsi alle ricostruzioni con attori, avrebbe dato una spinta in più alla componente emotiva ed emozionale dello spettatore. Ma la spinta arriva lo stesso ed è l’impressione che, in Veleno, chiunque stia dicendo la verità: il fatto che si tratti solo della propria verità aggiunge altro dolore.