Furbe o scorrette? Abili imprenditrici o subdole truffatrici? Vittime o carnefici, truffati o creduloni? Fino a che punto si può approfittare dalla debolezza altrui? Wanna (Fortune Seller: A TV Scam), la docuserie arrivata il 21 settembre su Netflix che racconta la nascita e il declino di un’icona televisiva italiana si pone, e ci pone, tante domande. Purtroppo, però, non riesce a rispondere neanche a uno dei dilemmi che tenta di analizzare. Non si tratta di un limite del documentario, casomai ne costituisce il fascino, la ragione per cui dovremmo correre a vederlo. Guardatelo subito! D’accordo!? La chiuderebbe così, la recensione, Wanna Marchi, all’anagrafe Vanna Marchi. E sua figlia, Stefania Nobile (sulla carta d’identità o, come preferisce lei, Stefania Marchi – per negare qualunque legame con l’odiato padre – oppure “la figlia di Wanna Marchi”, come è passata alla storia) non potrebbe essere più d’accordo. Se avete vissuto l’epopea dell’agguerrita televenditrice che tra gli anni Ottanta e Novanta costruì un impero, facendo leva sul body shaming e sull’arte della persuasione, e pensavate di averla dimenticata, abbiamo una brutta notizia: quei ricordi vivono ancora in voi. Accompagnati da quella voce rauca e squillante che ha infranto i timpani a un Paese intero per oltre trent’anni. Sappiamo tutti chi sono Wanna Marchi e Stefania Nobile, non avevamo bisogno di un documentario per ricordarcelo. Per fortuna, però, la docuserie (I 5 documentari più interessanti usciti su Netflix nel 2021) di Alessandro Garramone scritta insieme a Davide Bandiera, prodotta da Gabriele Immirzi e diretta da Nicola Prosatore è molto di più. È un’interessantissima testimonianza storica che faremmo bene a ripassare. Una cronaca avvincente e amara di un fenomeno mediatico seducente e pericoloso. Una vicenda indagata sotto ogni punto di vista, sociologico, culturale, psicologico ed economico, attraverso il quale è possibile scoprire qualcosa in più sull’Italia di ieri per capire meglio l‘Italia di oggi.
Wanna era pungente, ti istigava, quasi ti offendeva, per prendere il meglio.
Roberto Da Crema, detto il Baffo
“Bisogna essere d’accordo con me, con quello che dico io!”, dice Wanna Marchi
E pensare che tutto potrebbe essere nato dal commento della suocera di Wanna Marchi il giorno del suo matrimonio con Raimondo Nobile: “Sei brutta! Mio figlio meritava di meglio”. Wanna è sempre stata mossa dal desiderio di dimostrare quanto valesse a chi l’aveva sottovalutata. Fare soldi significava guadagnare potere. Ai suoi occhi era, ed è tuttora, anche dopo il carcere, una vittima. Essere famosa rendeva la televenditrice onnipotente durante una guerra, da lei iniziata, contro tutti. Tutti, cioè chiunque tentasse di rompere la sua bolla. Il suo era un nemico indefinito che probabilmente ancora non smette di combattere. La sua è la storia di un ego smisurato, come ne conosciamo tanti. È facile infatti fare paragoni con altri personaggi storici. E trovandoci in casa Netflix (forse sarà anche grazie alla splendida sigla che richiama quella di Narcos), il primo nome salta subito agli occhi: Pablo Escobar; coevo e detentore di un fantomatico “tesoro”, lo stesso che si ipotizza avere la televenditrice.
Non è magia! È Wanna Marchi: questa è la magia.
Wanna Marchi
In pochi anni Wanna Marchi e Stefania Nobile sono diventate le regine delle televendite finché non si sono spinte troppo oltre. Ed è quel limite che Alessandro Garramone ha cercato di raccontare in modo attento, accurato, favoloso. La docuserie, però, non ci dirà chi è Wanna Marchi. Non ci aiuterà a capire meglio l’essere umano che si cela dietro quella che ormai è una leggenda. Non ci chiederà nemmeno di prendere una posizione. La docuserie Netflix potrebbe apparire come una monografia avvincente o come un’apologia del male. Invece è la cronaca puntuale di un’epoca, si spera, tramontata. Quattro puntate da 45-50 minuti che scorrono con una frenesia inebriante, che non riusciamo a smettere di divorare. Tante, troppe domande, eppure nessuna risposta. Come ogni buon documentario che si rispetti, Wanna nasce infatti per raccontare senza giudicare e senza imboccare lo spettatore.
Perché hanno deciso di realizzare una docuserie per Netflix su Wanna & figlia?
Wanna racconta la multiforme vicenda delle Marchi, che speriamo e crediamo possa raccontare anche pezzi di vita del nostro Paese.
Alessandro Garramone e Gabriele Immirzi
La domanda principale, però, è: perché mai riesumare una storia chiusa con la condanna delle due partner in crime avvenuta nel primo decennio degli anni 2000 dopo un lungo processo? Alessandro Garramone e Gabriele Immirzi hanno deciso di raccontare questa storia perché è sì molto nota, ma nessuno l’aveva ancora raccontata dall’inizio alla fine (cioè fino alla condanna) in modo sistematico. C’è un motivo “amarcord” per chi ha vissuto quel periodo e un motivo informativo per spiegare ai più giovani un fenomeno di cui sentono parlare, spiega Garramone. L’unico presupposto per avviare il progetto era quello di avere piena libertà editoriale e di non dover corrispondere nessun compenso alle Signore Marchi per le loro testimonianze.
L’impianto etico e il lavoro documentativo era dunque imprescindibile. Il lavoro della redazione d’inchiesta di Wanna, composta da Giuseppe Bentivegna e Olga Borghini, è encomiabile poiché non si voleva raccontare le persone, ma la vicenda. Il motivo per cui Wanna e Stefania hanno accettato di testimoniare, sottostando a queste condizioni, è facile da immaginare: “se si parla di noi, vogliamo dire la nostra”. Un’occasione che hanno avuto, certo. Come l’hanno avuta in equa misura coloro che hanno subito il fenomeno o avevano ancora qualcosa da dire, come gli ex collaboratori, le vittime del raggiro, i colleghi televenditori e i soci in affari delle due teleimbonitrici.
[Volevamo] ricostruire la storia dal punto di vista di chi l’aveva subita. Avevamo una grande responsabilità, secondo me, che tutti noi dovremmo avere quando raccontiamo storie di truffa. Quando si parla di truffa c’è il rischio di far percepire i truffati quasi più colpevoli dei truffatori. E questa è una cosa che, secondo me, non è giusto fare.
Alessandro Garramone
Testimonianze a confronto
I quattro episodi narrano l’ascesa, il trionfo, il declino di un fenomeno mediatico e culturale. Nel corso delle puntate si accavallano i punti di vista dei giornalisti d’inchiesta, Peter Gomez e Stefano Zurlo; l’odiato marito e padre, Raimondo Nobile (scomparso, ma di cui esistono diverse interviste); i colleghi televenditori, come Walter Carbone o Roberto Da Crema, detto il Baffo, il quale ritiene le due donne responsabili del declino del sistema televendita; il cameriere e maestro di vita Mário Pacheco do Nascimento, che è stato difficile scovare; Gianluigi Jimmy Ghione, l’inviato di Striscia La Notizia che ha condotto l’inchiesta che ha portato alla condanna di Wanna e Stefania Marchi, e tanti altri testimoni decisivi soprattutto durante il processo.
Il primo episodio narra una favola moderna. Ripercorriamo la parabola di Wanna: da moglie infelice e truccatrice di cadaveri a donna d’affari del mondo della cosmetica; da imprenditrice a televenditrice di prodotti che nemmeno esistevano, come lo Scioglipancia; (da cui il titolo dell’episodio). Il secondo episodio ci fa conoscere meglio Wanna Marchi e Stefania Nobile, che cerchiamo di comprendere e conoscere: per loro tutto ha un valore commerciale, anche il nulla. Il terzo episodio, invece, narra il momento in cui il limite viene oltrepassato, l’inizio della caduta, mentre il quarto, che assume i toni del thriller, si concentra sul processo, sulla condanna. Wanna e Stefania Nobile diventano quindi le usuraie mediatiche che Striscia mette alla gogna; sebbene ancora oggi non si pentano di nulla.
Come hanno fatto le Marchi a convincere centinaia di migliaia di persone? Hai voglia a dire la credulità, la terza media, la quinta elementare e la donna sola. C’è una capacità impressionante nel catturare la voglia di crescita dell’Italia media, della casalinga.
Stefano Zurlo
“È giusto che i co***i vengano inc***ti”, urla Wanna Marchi
Wanna è un documentario-inchiesta avvincente e interessante dai toni aggressivi, come lo sono i fatti che espone. 22 testimonianze, circa 60 ore di interviste e immagini tratte da oltre 100 ore di materiali d’archivio. La regia è pulita e accoglie senza giudicare tutti i punti di vista. Interessante, poi, lo stile “televideo” adottato per la grafica; il ritmo frenetico delle interviste; la bellissima sigla, il singolo intitolato Cinque minuti di te scritto da Don Antonio, alias Antonio Gramentieri, cantato da Daniela Peroni e pubblicato su Santeria Records che richiama i suoni della canzone italiana degli anni Sessanta; la colonna sonora stessa è molto evocativa, eclettica e intrigante e spazia dal pop al Requiem di Mozart.
La docuserie Netflix narra dunque la nascita, l’ascesa e la caduta di un personaggio pubblico che è innegabilmente rappresentativo di un’epoca storica. Conoscere questa vicenda significa scoprire un mondo e conoscere qualcosa in più su un passato recente del nostro Paese. Ma anche riflettere sul potere dei mass media; indagare le zone oscure dell’animo umano; quell’alchimia seducente tra madre e figlia Marchi; la violenza domestica in un’era pre-divorzio e, in generale, conoscere meglio tutti i cambiamenti socio-culturali ed economici che ci hanno portato al presente. La vicenda delle Signore Marchi, però, è soprattutto un monito per ricordarci che le promesse sono sempre la merce di scambio quando in giro c’è malessere.
Sono un truffatore io o sei un credulone tu?
Stefania Nobile, figlia di Wanna Marchi