«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»
Quanto pesa la coscienza?
Dopo un errore e prima del pensiero che precede una scelta, la coscienza non può pesare uguale.
Non può essere la stessa prima e dopo aver deciso da che parte della botola di vetro stare.
Prima di incrociare lo sguardo consumato dagli anni di chi hai fatto prigioniero del suo desiderio, questa non può non essere più leggera.
Il peso della coscienza non è solo frutto della retorica, e cresce imprudente nell’involucro umano.
In Westworld, la coscienza pesa quanto la pelle stanca sul volto anziano di William, che gli ricorda tristemente di non essere più quel falso “William my boy” pronunciato con sterile speranza da James Delos.
In Westworld, questa può anche non mutare mai, e continuare a pesare i pochi grammi di una pallina rossa custodita in quel laboratorio ai margini di un mondo che non esiste.
E restarvi per sempre.
Tanto, a sapere di esistere, sarà soltanto lei.
James Delos è l’uomo che si trovò al pedice della porta che conduceva a un nuovo mondo, vasto e di un’indecifrabilità magnetica.
Un uomo ricco e potente, ma soprattutto egocentrico.
Di un egocentrismo quasi infantile. Edipico.
È esattamente come Edipo alle porte di Tibes dopo aver orgogliosamente risolto il “Riddle of the Sphinx” (racconto mitologico dal quale prende il titolo questo quarto episodio), che si ritrova James Delos.
Dopo l’accesso a Tibes, Edipo è convinto di poter coartare gli dei e aggirare il fato, nella stessa misura in cui James Delos sfida Dio, e si convince di poter sfuggire alla mortalità.
Il climax dell’episodio è costruito interamente su di lui, come una discesa a imbuto nei ricordi corrotti, e comincia ad ambientarci nell’altezzosità e sfrontatezza del personaggio con le note di “Play with fire” dei Rolling Stones (di un simbolismo ironico il fatto che, a fine episodio, James Delos morirà proprio tra le fiamme).
Delos ha scoperto qual è la sublimazione estrema dell’ambizione, il risultato finale di chi i risultati li ha ottenuti ormai tutti e non trova più sorrisi sinceri nell’appagamento.
Il suo desiderio è rimasto inghiottito nei confini di terre senza religioni, che invocano un Dio.
Non c’era posto peggiore.
Il suo sviluppo in questo episodio è regressivo, un depotenziamento inesorabile che parte dalla maniacale cura di sé espressa nella fittizia routine giornaliera, e si risolve in quell’affannoso e commovente balbettio che piange rassegnazione.
Tale regressione appartiene a Delos quanto a Bernard: il suo dolore è silente, ne è pervaso passivamente e subisce il male quasi come si subisce l’amore. Non lo rigetta, lo vive come sovraimposta della coscienza, come una tangente per l’appercezione, provando a raggiungere il sé nascosto sotto un dolore che non gli appartiene. È anche per questo che per lui è più semplice.
Semplice da accettare, ma non facile.
Tale condizione è l’idea di male necessario proposto da Schelling in filosofia, e con esso l’idea di Dio come “non diverso dall’uomo” che è particolarmente familiare alla retorica di Westworld.
Anche Bernard, come Delos, è un Dio caduto dall’Olimpo, che impatta al suolo diventando meno che un comune mortale.
Il burattinaio che lucidava gelosamente la superficie delle sue marionette diventa ora un contenitore di informazioni in balia degli eventi.
La scena del flashback al laboratorio ci avvicina ancor di più all’idea che il grande coupe de théatre che vedrebbe protagonista Bernard potrebbe davvero essere legato ai droni bianchi e alla prosopagnosia (come ipotizzato nella recensione del primo episodio). Questo per struttura ed elementi di congiunzione particolarmente sospetti: appena dopo aver visto uno dei droni bianchi, presa da sgomento Elsie si rivolge a Bernard chiedendo «sei coinvolto anche tu in tutto questo?». Tale domanda sarebbe una reazione naturale e consequenziale alla visione di una copia di Bernard (che lo stesso Bernard vede appunto come drone bianco).
Indizio stilistico potrebbe essere la stessa sequenza di uccisioni che i droni compiono sugli scienziati, che si conclude con Bernard che giustizia l’ultimo scienziato rimasto; a carte scoperte, la scena originale avrebbe un colpo d’occhio che consiste nel vedere ogni Bernard uccidere uno scienziato per uno.
Il fardello di Bernard è inevitabilmente lo stesso di Arnold: un pensiero inscindibile, legato alla coscienza come ruggine al ferro, quel fossile scavato nella corteccia cerebrale e custodito nella testa perforata di chi stava per essere tutto e gli è stato imposto di essere niente. Neppure quell’umile “strumento perfetto, partner ideale” che Ford desiderava.
Non c’era posto peggiore.
Anche William vive il tempo a ritroso, errore dopo errore, grammi di coscienza dopo grammi di coscienza.
Non William ragazzo, tanto meno l’Uomo in Nero.
Bensì quell’uomo non ancora abbastanza anziano da dimenticare le peggiori scelte.
Quell’Uomo in Nero che in questo episodio è, per la prima volta, semplicemente William.
Tutto il suo coinvolgimento nell’episodio è un contrappasso che accetta (anche lui) in maniera passiva, e ricalca quasi frame-to-frame alcuni passaggi della prima stagione.
Come fu lui a reggere la mano della donzella, moglie di Lawrence, e concederle un umiliante ballo del terrore, cospargendo di vergogna lo stesso Lawrence e istigando il dolore (perfino le battute recitate sono le stesse che l’Uomo in Nero recita nella prima stagione), ora è un host a compiere le stesse meschinità sotto il suo occhio pentito.
Lo sguardo di William è basso, evita il contatto visivo con ciò che fino a poco prima era lui.
La parte peggiore di lui.
Eppure, nemmeno guardare il vuoto basta. Perché quel vuoto fa da tela bianca ai ricordi che non perdono occasione per espandersi, e trasformarsi in una vasca strabordante d’acqua, riempita dal corpo smorto di sua moglie. Ancora un errore, che sovrascrive un errore.
In questa alternanza simmetrica tra passato e presente, il giovane William affronta James Delos con l’ironica consapevolezza di chi sa ormai troppo, e si ripresenta facile un’analogia col momento in cui William entra per la prima volta a Westworld, e rivolgendosi alla donna in bianco, chiedendo se quello che vede sia reale, riceve l’ambigua risposta: «Se non riesci a capirlo, importa?».
Darà la stessa risposta a Delos, quando quest’ultimo gli chiederà: «Sono ancora in California?».
Il confronto tra i due e la prigionia di James Delos è un affascinante e non pretestuoso richiamo a Bianco Natale di Black Mirror. La rammentano i colori (la preponderanza del profondo bianco), gli abiti eleganti degli interpreti e, soprattutto, la profondità della tematica: il concetto di determinismo è l’elemento formante, causa ed effetto della prigionia stessa, e lega a filo stretto vittima (Delos) e carnefice (William). Un legame che trascende la narrativa e sembra saldarsi anche nell’alchimia tra gli attori: le espressioni di Ed Harris e Jimmi Simpson sono prodigiose, di un coinvolgimento emotivo straziante.
Le due interpretazioni si sovrappongono, arrivando a un allineamento del personaggio che ora può finalmente essere “soltanto William”.
Come se il gioco di Ford, la Porta, fosse per William esattamente ciò che il Labirinto è stato per Dolores (da parte di Arnold). Un percorso di autocoscienza alla fine del quale ora William è finalmente giunto.
Solo ora, William ha deciso di guardare realmente negli occhi James Delos.
Paradossalmente, nella sua gelida e insensibile sentenziosità, vomitando in faccia all’ennesima copia della sua vittima tutta la verità sulla famiglia, è forse per la prima volta sincero. Per la prima volta, nella disumanità lo tratta da umano.
Lo guarda senza più mimare con le labbra le parole che è stato programmato per dire, come a incoraggiare la riuscita dell’esperimento, e senza più accompagnare speranzoso il balbettio con movimenti della testa.
Lo guarda stoico, impassibile. Per la prima e anche ultima volta, sceglie di trattarlo come si tratta un uomo, in quella sterile e bianca stanza allestita a cosmo.
Non c’era posto peggiore.
James e William, posti l’uno di fronte all’altro, soffrono insieme un dolore che è perfino maggiore della somma dei propri mali, e se il rimorso dell’Uomo in Nero è angosciante, la frustrazione di James Delos è dilaniante.
Mostra contemporaneamente le ragioni per cui soffre un host, e quelle per le quali soffre un essere umano.
Su due livelli, si sovrappone la disperazione della consapevolezza e la frivolezza del proprio passato, provate dalla macchina, e l’impotenza dell’uomo malato incapace di prendere controllo del proprio corpo, provata dall’essere umano.
Una matriosca di pene che James Delos vuole smettere di vivere per sempre ogni volta che scopre di viverle da sempre.
Capendo finalmente che è inutile continuare a vivere all’infinito se tanto, a sapere di esistere, è soltanto lui.
Così Edipo volge un ultimo sguardo a quello che non sarebbe mai voluto diventare quando, sognante, ammirava le porte di quel nuovo mondo.
E prima di morire sorride, nella sterile e bianca stanza allestita a cosmo.
Lui lo sa: non c’era posto migliore.
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