«Bring yourselves back online»
«Tornate in linea»
A volte si è così soli da doversi accontentare di se stessi.
Quando ciò accade, ogni sensazione negativa è amplificata, e l’eco del proprio giudizio risuona come l’urlo disperato di una madre privata del suo futuro. Un urlo che quasi non ricordi di aver provocato.
È questo che rimbomba nella mente (troppo) umana di William, un’eco così lunga da dimenticarne la voce d’origine. “Qualcosa” che esiste da troppo tempo perché se ne ricordi la nascita.
Qualcosa che ha fatto capire a William di essere sempre stato l’Uomo in Nero, e che bianco o nero che fosse quel cappello ha sempre collezionato le stesse tragiche informazioni.
Così, quando è l’assenza di una scelta che non ci permette di avere onore, finiamo per confondere noi stessi con un’azione.
William non ha mai avuto scelta, ed è proprio questa unidirezionalità che l’ha costretto a “scegliere” tra il definirsi buono o cattivo, ingabbiato in quel Labirinto esistenziale che sa ingannare soltanto l’uomo senziente, colui in grado di dubitare della propria natura.
Quell’ingannevole mobilismo che spinge l’uomo alla paranoia, come fosse un bug nel corruttibile core code di un androide. “Qualcosa” che confonde William come il passato ha confuso James Delos.
William si sovrappone a quest’ultimo, dimostrando che a volte non si è realmente soli.
È solo che anche accontentarsi di se stessi può diventare un lusso.
Perché a volte ci si sente così soli da non riuscire nemmeno più a trovarsi.
«Nessuno vedeva questa cosa in me. Poi mi sono reso conto che non ricordo un momento in cui non ci sia stata.»
Non può essere un caso che il nono episodio di Westworld si soffermi a più riprese sulle parole di Plotino.
In questo clinamen che scompone ogni logica prima del gran finale, William si trova a dover riconoscere il male come consustanzialità del proprio essere, riconoscendo passato, presente e futuro come un’unità.
Quest’ultimo diventa così una suggestiva rappresentazione vivente della dottrina di Plotino, che si contrappone all’idea che lo stesso suggerisce di ”artigiano” (la Delos), il cui compito è costruire l’uno iniziando dalle molte parti che compongono l’essere (gli androidi).
William si accorge di non poter godere di tale scomponibilità, di non poter trascendere per un attimo da se stesso per capirsi e capire, e realizza che alla comprensione consegue l’autodistruzione di quell’unità permeante, sempiterna e ormai pericolosamente tracciata su un disco di memoria.
In questa sempre più fuorviante fusione tra mondo androide e mondo umano, predestinazione e libero arbitrio, Jonathan Nolan e Lisa Joy tracciano così una linea di demarcazione metaforica, delicata e sottile.
Su questa stessa linea viaggia prudente Ford, disvelando e conseguendo obiettivi che si scoprono via via più empatici. Un’empatia che il misantrope demiurgo di Westworld riserva, però, soltanto a quelle che riconosce come sue creature, nuova specie senziente destinata a prendere il posto dell’uomo nella sua visione del futuro.
È la scena che lo ritrae con Maeve a esprimere la versione più emotiva di sé (carattere che prevale anche dalla straordinaria interpretazione di Anthony Hopkins, che sembra quasi commuoversi sotto la maschera di Ford), quando esplicita inaspettatamente il suo senso paterno.
Una sequenza in grado anche di perfezionare quella dicotomica simmetria tra i due “padri” di Westworld, che sublimano il loro senso paterno nello stretto rapporto con le proprie creazioni: come Ford ritiene Maeve sua figlia, allo stesso modo Arnold vedeva in Dolores una tabula rasa da guidare e “istruire”.
In quell’analogia col mito greco che Westworld si “sforza” delicatamente di essere, Ford rassomiglia sempre più ad Ade, Dio di quell’Inferno freddo e asettico che sono i laboratori della Delos, mentre Maeve diventa la “sua” Persefone.
Alla figlia di Zeus fu concesso di intervallare la propria permanenza negli Inferi con quella sulla terra, così come Ford afferma con affettuosa premura, ammorbidendo la triste sentenza con un paterno bacio sulla fronte, che a Maeve aveva concesso di essere libera prima di capire che il suo destino fosse diviso a metà.
Ford torna tra presente e passato, e con un flashback mette nuovamente in risalto (con una schematizzazione quasi fisica) ciò che Westworld, in fondo, è sempre stata sin dalla prima stagione: un confronto a due tra William e Ford, scheletro e muscoli che rifiutano di condividere lo stesso corpo ma costretti a interfacciarsi l’uno con l’altro.
Così, ancora una volta, li ritroviamo a sorseggiare whiskey l’uno accanto all’altro.
Al cospetto di Ford, l’Uomo in Nero si presenta stavolta con la stessa indolenza che gli impedisce di essere d’aiuto alla sua famiglia. Subisce inerme le parole della sua nemesi, e voltandogli le spalle ignora quella promessa sussurrata che finge di somigliare a una minaccia: «Forse c’è ancora tempo per l’ultimo gioco».
Quella di Ford non è la smania di trasformare tutto in gioco per gioco, bensì la cura nel trasformare in gioco le necessità.
La sinergia espressa da tutti i dettagli che costruiscono il confronto tra i due sembra volersi raccontare in funzione di un significato nascosto: nell’esatto momento in cui la scheda di memoria che Ford fa scivolare sul bancone arriva a toccare le mani di William, questo viene distratto (soltanto lui, sottolineando l’impassibile “onniscienza” di Ford) dalla rottura di un bicchiere causata da sua moglie. Quasi come se l’avvenuto contatto a distanza tra William e Ford avesse portato a una già programmata conseguenza che, per qualche ragione, inquieta e preoccupa l’Uomo in Nero.
Da quella promessa tenuta tuttora volutamente aperta potrebbe quindi rivelarsi il colpo di scena finale e decisivo di questa seconda stagione.
Se il gioco a cui fa riferimento Ford una volta salutato William fosse un catartico capovolgimento dal dramma alla beatitudine, potrebbe spiegarsi la prematura e fulminea uscita di scena di sua figlia Grace.
Se Ford fosse riuscito, in qualche sofisticato modo, a riprodurre Juliet e/o sua figlia come host, potremmo aver assistito a un dolore indotto, col fine di giungere a un percorso di redenzione che andrebbe ad allinearsi all’evoluzione/involuzione dell’Uomo in Nero.
Nel prosieguo di quello che sembra un percorso al capolinea per William, quest’ultimo potrebbe ritrovarsi di fronte a uno o più membri della sua famiglia, vivi, e affrontare per un’ultima ed esasperante volta il passato e le sue (non) scelte.
È per questo che William non può morire con una pistola puntata alla tempia.
Deve desistere, arrendersi ancora una volta a una scelta che non ha, e accasciarsi al suolo.
Sarà la sua stessa paranoia, l’ossessione dell’uomo innocuo per scelta e pertanto oppresso dalle convenzioni, a ucciderlo.
Sarà il dubbio cartesiano che lo rende senziente. Lo scetticismo metodico di colui che pensa.
William morirà col delirante assillo di scoprire dov’è quella cosa al suo interno. Ciò che gli impedisce di essere l’uomo che si sforzava di essere.
Morirà “aprendosi”, scavando nel suo braccio per scoprire cos’ha dentro.
Per trovare “quella cosa che gli altri non vedono”, e scoprire se la sua natura umana è stata violata.
A volte ci si sente così soli da non riuscire nemmeno più a trovarsi.
Anche scavando, provandoci ossessivamente, cercando ovunque.
Identificandoti in qualcosa di malvagio che può essere estirpato per tornare a essere chi vuoi essere.
William morirà trovando nulla nel suo braccio, se non se stesso.
E dalla delusione derivante saprà almeno di essere umano.
A volte ci si sente così soli da annullarsi.