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Westworld – 3×01: l’uomo del sottosuolo e i nuovi déi

Westworld
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La 3×01 di Westworld ci presenta gli outsider esclusi da un mondo in cui la vera malattia è l’inconsapevolezza di essere malati.

Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco.

Alberto Moravia, nella prefazione di Memorie dal sottosuolo, romanzo spartiacque di Fëdor Dostoevskij, definisce l’opera come la discesa dell’autore “Dall’appartamento al primo piano, in cui sinora è vissuto, giù nel sottosuolo della casa“. Da quel momento il grande scrittore russo non sarebbe più riemerso. Avrebbe scritto da quel sofferente luogo dell’anima i suoi più grandi capolavori.

Aaron Paul

Il sottosuolo è il non visibile, l’orrore negato, la verità – se davvero vi è una una verità – dietro l’apparenza della vita in superficie. È solitudine e nudità, paralizzante consapevolezza di non poter essere parte dell’ingranaggio. Coscienza dell’inevitabile fallimento, del fatto che non si può davvero agire senza finire per diventare qualcosa. Senza finire per essere strumento in un mondo che cerca produttività.

Per scendere nel Sottosuolo bisogna fallire.

Bisogna diventare outsider, corpi estranei al mondo e alla realtà. È quanto accade a Caleb (Aaron Paul) in questa première di Westworld. Lui stesso si definisce “Underachiever“, termine che più dell’italiano “fallito” definisce una persona assolutamente improduttiva. Inutile, svogliata e incapace di impegnarsi.

È questo il sentimento che anima (anzi, annichilisce) il protagonista di Memorie dal sottosuolo. Caleb in quel Sottosuolo ci sguazza, irrimediabilmente escluso dalla società per una troppo viva consapevolezza. Sa che “Hanno progettato il mondo come fosse un gioco, poi lo hanno truccato per essere sicuri di vincere sempre“. Lui, a quel gioco, non vuole né può prendere parte.

Westworld

Dostoevskij non esalta l’abitante del Sottosuolo. Anzi, ammette che l’inedia che lo assale trova giustificazione in una supposta superiorità che non è altro che l’ennesimo inganno a sé stessi. Crogiolarsi nel Sottosuolo è una consolazione maligna e vana. Anche per Caleb l’incapacità di adattarsi al suo mondo diventa occasione per una critica di parte alla società.

Ma tanto nell’uomo del Sottosuolo quanto in Caleb c’è più verità e consapevolezza di chiunque altro.

Nel cantuccio in cui si risvegliano ogni mattina c’è il lerciume e il fallimento, l’orribile formicolare di vermi e parassiti. Sotto il verde prato all’inglese di una società meritocratica, c’è il disgustoso humus dell’underground. C’è il disvelamento dell’irrealtà di quella “impeccabile” vita superficiale.

Per Dostoevskij la consapevolezza è insieme il flagello dell’umanità e ciò che la rende più autentica. Nel mondo di Westworld, in superficie, le persone assumono piccole ostie e portano impianti che “smussano gli spigoli”, acquietano le nevrosi schiacciandole in profondità. Mettono a tacere le coscienze. Il lerciume è spinto giù, sotterrato in quel Sottosuolo che come una cloaca accoglie la verità sottaciuta.

Ostia

Caleb è – in questo mondo – l’outsider, il solo a “Sapere di essere malato in una società che ignora di esserlo”, come professa Colin Wilson nel romanzo che l’ha reso famoso (The Outsider). Di quella malattia fa i suoi angoli, le irte, affilate sporgenze del suo Essere. Non accetta di “smussare gli spigoli”, perché significherebbe perdere tridimensionalità, annullarsi nel piattume generale (“Credo che gli spigoli siano l’unica cosa a cui mi aggrappo“).

Forse sarebbe parte di quel mondo se lo facesse, se si adeguasse.

Accettato non più come outsider ma membro produttivo, degno di occupazione e assistenza sanitaria. Però, ci ricorda Dostoevskij, l’Uomo (chi davvero si riconosce come tale) non rinuncia alla propria coscienza pur sapendo che è la causa della propria sofferenza.

È tutto qui il dramma del fuori casta, dello Straniero, dell’abitante del Sottosuolo: avere coscienza della propria sofferenza ma non essere in grado di elevare tale sofferenza in una “missione”, come facevano i mistici del passato, i profeti della Bibbia e i bodhisattva della tradizione buddhista. Può solo crogiolarsi nel suo fango, incapace di agire senza finire per perdersi. Per questo è un inetto: perché non può essere realmente né diavolo né angelo, né meschino né buono.

3x01

Il mondo tratteggiato da Westworld è una distopia mascherata da utopia: il merito guida ogni uomo, costretto a seguire la propria strada, prefissata da un controllore superiore chiamato Rehoboam. Ma “Due-più-due-quattro non è già più la vita, Signori, ma l’inizio della morte“, ammoniva Dostoevskij. L’umanità di Westworld è un’umanità non più sofferente (e cioè viva) ma ormai morente (e cioè inconsapevole). Un’umanità che ha delegato la propria vita alle macchine e le macchine, di quella vita, ne hanno preso possesso.

Dolores è la vita nuova.

È l’umanità in cellulosa che pretende quello spazio vitale che è stato l’uomo stesso, in principio, a concederle per delega. Ma è anche il nuovo dio, il cavaliere dell’Apocalisse che vuole spazzare via la finzione di un mondo artificioso. Il paradosso è tutto qui: da un lato l’umanità perde coscienza di sé stessa diventando macchina, ingranaggio della società. Dall’altro la macchina viene a raccattare quella coscienza, prendendo così consapevolezza di sé e facendosi reale, “Uomo” nuovo. Uomo vero.

Caleb, in quella terra di nessuno, è l’ultimo, “vecchio” e stanco uomo. L’interprete di una specie che ha finito per autodistruggersi. L’unico che cerca realtà in un mondo di finzione. Per questo abbandona il “programma”, l’intelligenza artificiale che rievoca, fintamente, la voce e i pensieri del suo amico con lo scopo di “curarlo”, di reinserirlo nella società. Caleb percepisce tutta la finzione del programma, di quella voce creata digitalmente che mal interpreta le parole reali pronunciate dal vero amico (“No, non è questo che intendevi, affatto“).

Dolores

Credo che se voglio andare avanti con la mia vita, devo trovare una cosa, una persona reale“. E così l’ultimo uomo incontra Dolores, “L’ultima della mia specie, per ora“. La vecchia umanità incontra quella nuova. Incontra una persona vera, reale, in un guscio finto e meccanico. I parallelismi tra i due sono reiterati, la loro connessione intima. Quando Caleb, giorno dopo giorno, apre gli occhi nel suo cantuccio non possiamo non pensare immediatamente al risveglio di Dolores riproposto regolarmente durante la prima stagione di Westworld.

Entrambi vivono, in momenti e mondi diversi, in una realtà completamente falsa.

Da questa irrealtà della vita vogliono uscire. Sottrarsi alla routine, alla ripetizione di giorni sempre uguali a sé stessi. Alla quotidianità di una società che impone a entrambi un ruolo in un mondo di finzione. Dolores e Caleb, outsider così simili eppure diversi. Perché se Caleb è l’abitante del Sottosuolo, Dolores è il mistico, il dio di sé stesso che agisce con la consapevolezza di una missione. L’uno si crogiola nel proprio cantuccio senza poter essere realmente nulla, l’altra grida nelle strade che l’uomo è morto, l’uomo l’ha ucciso. Così parlò Dolores, profetessa di una nuova umanità.

Anche Bernard è un outsider, un profeta che crede ancora nel vecchio uomo, nella sua salvezza. In lui c’è tanta autenticità quanto in Dolores e Caleb: lui che si è ribellato agli ordini del proprio creatore per non venire meno all’intimo diktat morale che lo guida. Anche Dolores lo sa, è consapevole di quanto sia “uomo”: per questo, pur opponendosi alla sua visione, lo lascia in vita e anzi gli ridà la vita.

Westworld

Bernard è così il terzo uomo, scisso nel dubbio e nella sofferenza, prigioniero di una natura di cui non può fidarsi, costretto a sospettare di sé stesso prima ancora che degli altri. L’autoanalisi diventa il dialogo interiore, la riflessione meditata su una verità: può credere a sé stesso o finirà per ingannarsi sprofondando nell’irrealtà della vita?

Colin Wilson in The Outsider lascia svolazzare uno dopo l’altro gli spiriti di alcuni grandi uomini.

Dostoevskij, Nietzsche, Sartre, Van Gogh, Nijinskij. Tutti, a un certo punto della loro esistenza, si sono calati nel Sottosuolo. Molti, da quel sottosuolo, non sono più riemersi. Nietzsche impazzisce, Van Gogh si spara, Nijinskij sente un dionisiaco dio che lo anima ma è quello stesso dio a condannarlo alla follia. Dostoevskij si scopre invece profeta e affida al suo più maestoso capolavoro, I fratelli Karamazov, il messaggio di fede per l’Uomo.

Caleb, Dolores e Bernard: tre uomini, tre spiriti. Tre diverse declinazioni di umanità. Ognuno con la sua fede svolazza in un mondo artificiale scoprendosi reale. Ma solo chi saprà essere davvero profeta potrà sperare di sopravvivere, riemergere dal Sottosuolo e gridare alla nascita di un mondo nuovo. O al ritorno di un mondo passato che in Westworld sembra essere stato drammaticamente dimenticato barattando la coscienza per la tranquillità. Barattando l’essere uomini con un’idea virtuale.

Persino essere uomini è un peso, per noi – uomini con un corpo vero, nostro, di carne e sangue; ce ne vergogniamo, noialtri, lo consideriamo un’onta e c’incaponiamo di volere essere chissà quali “uomini in generale”, che in realtà non sono mai esistiti. Siamo dei nati morti, noialtri, ed è già da un po’ che nasciamo da padri che non sono più vivi, il che d’altronde continua a piacerci sempre di più. Ci stiamo prendendo gusto. Presto escogiteremo un modo di nascere addirittura da un’idea.

Memorie dal sottosuolo

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